In my blog

In my blog

domenica 11 dicembre 2016

Desideri

Quando ero un bambino desideravo tanto volare ma mi dicevano che era impossibile e avrei dovuto capire.
Quando ero un adolescente avrei soltanto voluto capire il mondo ma mi dicevano che dovevo crescere e trovare la mia strada.
Quando fui adulto volevo  viaggiare ma mi dicevano che avrei dovuto pensare alla famiglia.
Ora sono vecchio e vorrei soltanto vivere ma tutti continuano a dirmi di essere felice nonostante ho realizzato pochi dei miei sogni.
Pochi dei miei sogni però non direi... perché sì, continuo ancora oggi a non capire il mondo e "soprattutto" le persone, ho trovato la strada che volevo percorrere e ho viaggiato per quella via di gioie e difficoltà assieme alla famiglia che mi sono creato. Ho vissuto e presto realizzerò il primo dei miei sogni, ora ancora più forte.
Non era così che immaginavo di volare via da bambino ma ora che sono vecchio aspetto con ansia la realizzazione del primo e ultimo sogno.

mercoledì 2 novembre 2016

Vortici d'orrore e fantasia di Giuseppina Vanessa Sata


https://www.amazon.it/gp/aw/d/B01LYC1LCN/ref=mp_s_a_1_1?__mk_it_IT=ÅMÅZÕÑ&qid=1478110048&sr=8-1&pi=AC_SX236_SY340_FMwebp_QL65&keywords=vortici+d%27orrore+e+fantasia&dpPl=1&dpID=51puKcZ-UxL&ref=plSrch


La fantasia e l'orrore dominano da sempre il potere delle parole.
Spaventose creature e guerrieri dalle grandi doti. Creature mitologiche e paure talvolta troppo reali. Vita, morte, rancori e ricordi.
Dieci racconti che racchiudono la forza delle parole necessaria per poterli narrare ai lettori che vogliano lanciarsi in questi: "Vortici d'orrore e fantasia".

giovedì 20 ottobre 2016

Il mare



Il cielo era incredibilmente limpido quel giorno, si rispecchiava nel mare confondendosi in un tutt'uno.  Le onde quasi impercettibili disegnavano piccoli segni sfumati in quel magnifico azzurro.
Sulla sfonda fra giunchi e Oleandri, all'ombra di un prosperoso ulivo dalle foglie colorite, c'era una ragazza che osservava il mare.
La pelle dorata dal sole, i capelli svolazzavano leggeri e il suo viso cercava qualcosa che sembrava non arrivare da giorni.
Il mare sembrava assorbire tutti i suoi pensieri e nulla riusciva a distogliere la sua attenzione.
Quando era solo una ragazzina il mare le aveva portato via il padre. Quella maledetta battuta di caccia che era finita per diventare rottami di legno in mezzo al mare in tempesta, un intero equipaggio inghiottito fra le onde!
A quell'epoca però lei era troppo piccola per stare lì ad aspettare... ora che era una madre, lasciava i suoi figli a letto e aspettava suo marito.
Sì, rano molto giovani ed erano ancora pieni di sogni, speranze e progetti eppure sembrava quasi che il destino infausto gli stesse giocando un brutto scherzo.
Il solo pensiero che il mare potesse prendersi tutto era un turbinio di malesseri nel suo cuore. Già una volta aveva svuotato la sua vita portandole via il padre, non poteva portarle via anche il padre dei suoi figli.
Combattivo e gorgogliante il mare s'infrangeva sulle onde. Pericolosa distesa di bei ricordi e di tristi amarezze. La schiuma si gettava in aria.
Degli schizzi d'acqua la fecero trasalire.
Sfiorarono il suo viso e bagnarono le sue lacrime già abbastanza salate. Il suo pianto si raddoppiò.
Non voleva che i suoi figli dicessero addio al proprio padre.
Non poteva permetterlo!
Piano piano i giorni stavano spazzando via le sue speranze. Ogni volta che poteva andava sempre ad aspettare in riva a quella distesa blu... aspettare cosa? A volte sperava di veder tornare la barchetta di suo marito, altre desiderava almeno che ne arrivassero i detriti.
Un segno che è vivo o che è morto" pregava. Allora immaginava i suoi occhi sbarratri e vitrei, e il suo corpo freddo e immobile.
Rabbrividiva sempre a quel pensiero!
Il tramonto quella sera brillava malinconico ai suoi occhi.
Lei lo guardava con i suoi occhi languidi e il cuore le batteva come se sentisse il cambiamento che incombeva nella sua vita.
All'improvviso qualcosa apparve all'orizzonte.
Una carcassa malconcia galleggiava malamente portata fra le onde.
Le lacrime presero a scivolare sulle sue guance. Le sue mani si erano portate a coprire il viso. Non credeva ai suoi occhi.
Il pesante legno sembrava esser stato bruciato da un attacco di fulmini guidati dalla tempesta. Stava lentamente affondando eppure avanzava verso di lei.
Suo marito era lì. Vivo e sorridente!
Il mare quella volta, che probabilmente non sarebbe nemmeno stata l'ultima, l'aveva tenuta in attesa... eppure le aveva dimostrato che tutto ciò che ci può sottrarre un pezzo di sogno, con un po' di speranza può ridarcelo.

mercoledì 7 settembre 2016

Nel fosso



Vivo sepolto in un buco disperso.
Ho scavato a mani nude nella terra arida, solo per fuggire.
Non riesco a raggiungere una via d'uscita.
Il buio annebbia la mia vista, da tempo non vedo la luce... da tempo non scorgo più nulla!
Ho consumato le unghie, graffiato le dita, tormentato la pelle!
Cercavo con tutte le mie forze di fuggire... non perché volevo vivere, e nemmeno perché avevo paura ma perché era un'ingiustizia essere rinchiuso lì per mano di chi mi aveva dato la vita.
Genitore, si dà per scontato che dopo aver dato la vita al figlio cerchi di preservarne il futuro ma così non è. Al mondo esistono genitori che scavano fosse per lanciarci i figli: fosse talmente profonde che è un'impresa eroica uscirne.
Quando ti svegli e ti trovi in quel fosso, sei già morto... morto dentro!

domenica 4 settembre 2016

Vivida consapevolezza di essere un'involucro di sogni, a volte reali altre infrante.
Lurida idea di povertà in una modestia che non sussiste.
Dannato senso di viltà per cui troppo spesso ho taciuto.
Ultimo sospiro di coraggio che afferra tutto quello in cui credo.
Strano slancio di euforia che spesso non riesce a sfiorare l'allegria.
Piccolo, livido, insignificante bocciolo che vorrebbe fiorire in libertà.

venerdì 2 settembre 2016

Sfiorare i sogni


Quel suo ossessivo bisogno di sognare,
Quel dolce profumo di vitalità,
Era così e ne sono fiera, nonostante spesso non l'avevo compreso!
Mia figlia Karol era una ragazza piena di vita, immersa in sogni e progetti molto più grandi di lei. Certe volte la consideravo una bambina che esagerava con capricci esasperanti.
Quante volte le avrò detto che per quanto cantasse bene il suo sogno di andare in America e trovare la sua strada lì non era verosimile!
Per anni le ho ripetuto che non era solo questione di soldi, che non c'entrava nulla l'impegno che poteva o non poteva metterci. Le ripetevo che non sarebbe servito provare e riprovare: era un paese nuovo, grande il doppio del nostro, pieno di altre ragazze che vogliono emergere.
Non servì. Karol era proprio testona!
Riuscì a convincerci a mandarla in America.
Poté visitare New york, Miami, non ricordo quale città del Minnesota e chissà quanti altri posti che avrà infilato per mesi nei suoi racconti.
Ha subito un furto e fatto amicizia con dei tipacci nel suo viaggio. Non ha trovato nemmeno un barlume di occasione, né é riuscita nemmeno ad avvicinarsi a un minimo piccolo spiraglio di sogno.
Però è tornata, si è divertita ed era felice.
Quel viaggio la rese felice, poteva dire di aver realizzato una parte del suo sogno: vedere l'America!
Fu una consolazione per me, perché Karol morì per un incidente qualche mese dopo essere tornata dall'America, la sua ultima gioia era
 stata aver seguito i suoi sogni... o almeno averci provato.
Vi racconto questa storia per farvi capire che bisogna vivere senza pensare troppo, buttarsi a capofitto nei sogni cercando di aggrapparli con mano. Non ci sarà rammarico se la vostra mano non riuscirà ad afferrarli perché perlomeno l'avrete allungata per sfiorarli!!!

mercoledì 6 luglio 2016

Le lacrime della morte



Chi non si è mai fermato a guardare il sole. Il sole è la luce. Rappresenta il calore della vita e di tutte le cose belle del mondo. È così bello farsi consolare dai suoi raggi. Chi non ama il sole secondo voi?
Persino io che sono una creatura del crepuscolo imparai ad amarlo un giorno di dieci anni fa. Persino io che sono un ammasso di ossa ammantato di scuro.
Io, l'oscura signora, colei che voi chiamate morte!
Ero stata spesso alla vista del sole dopotutto, come anche voi saprete, non c'è luce che possa fermare la morte. Quando ella arriva, è finita. Sembra strano ma per centinaia di anni non avevo mai notato la folgorante brillantezza del sole fino a quel giorno... bello e dannato!
Iniziò tutto in un parco. Il prato di un verde vivace, il cielo azzurro e tanti cani che rincorrevano frisbee, palloni o "padroni". Per me non c'era nulla di eccezionale in quella vista... non riuscivo a capire quanto magnifica fosse quella giornata. Ero li per quello che sono stata creata: prendere la vita di un essere vivente e accompagnarne l'anima a destinazione.
La mia vittima, se così la si vuol chiamare, era una giovane donna di nome Johanna. Bella, sana, mamma di una bambina... sarebbe stata investita di li a poco da un'auto senza controllo. Non provavo nessun sentimento nel vederla giocare con la figlioletta.
Quando la macchina arrivò sbandando in curva io mi avvicinai. Dovevo prendere la sua anima e accompagnarla nel paradiso che le spettava eppure qualcosa di strano accadde.
Il corpo della donna era caduto per terra con gli occhi sbarrati e sua figlia si era subito stretta a lei.
La piccola Dianne era un angelo biondo con gli occhi azzurri.
Mi fermò. Anche se non ho un cuore che batte in petto fu come se quel giorno mi fossi ricordata com'è avere un cuore! Dentro i suoi occhi azzurri riuscì a scorgere le bellezze del mondo e nei riflessi dorati dei suoi capelli notai per la prima volta i raggi di sole.
Non so se è possibile che quei raggi riuscissero a scaldare il mio corpo morto.
Fu quello il giorno che la morte s'innamorò della vita.

Presi a seguire quella bambina. Imparai a volerle bene e m'innamorai della forza che aveva dimostrato superando il dolore della perdita di sua madre. Trovavo che fosse il ritratto della vitalità e l'allegria.
Per anni la osservai.
Cresceva e man mano scordava il dolore che io le avevo procurato prendendo sua madre,  quello stesso dolore che chissà come mai tormentava me.
Quando Dianne ebbe sedici anni io passavo ogni attimo libero ad ammirarla. Seguendola negli anni avevo imparato ad amare le piccole e le grandi cose, guardavo il sole sui suoi capelli e il cielo nei suoi occhi. So che starete pensando che è una cosa stramba ma sappiate che prima d'incontrare Dianne "la morte non aveva mai visto la vita". Poiché la figura della vita è astratta e sta nella forza interiore di ogni uomo.
Fatto sta che all'improvviso il suo nome apparve nella mia lista.
Dianne sarebbe morta!
Il solo pensiero mi trafisse l'anima, se mai ne avessi avuta una, poiché ero io a dover prendere la sua vita. Avrei preso la sua dolce vitalità e l'avrei distrutta per sempre. Provai orrore per me stessa!
Allora andai da lei, la guardai mentre scriveva una lettera al ragazzo che le piaceva. Una lettera a cui quel giovane non avrebbe mai potuto rispondere... perché io ero già lì per prendermi quella vita!
Osservai i suoi meravigliosi capelli dal riflesso dorato.
Dovevo prendere la sua anima quando in casa sarebbe esplosa la bombola della cucina, ed eccola, ignara di tutto, a scrivere la sua lettera sul tavolo più vicino alla causa delle sue e le mie disgrazie! Non avrebbe sentito l'odore di gas, non si sarebbe resa conto che accendendo il fuoco per friggere un uovo avrebbe dato il via a tutto.
E poi lo fece. Aveva acceso il gas. L'esplosione rimbombò nell'aria.
Il dolore, le schegge l'assalirono.
Fu scaraventata contro il muro.
E piano piano la vita la stava abbandonando.
Mi avvicinai. Dovevo recidere la sua vita, rubarle l'anima. Allungai la mano e la sfiorai. La sua anima era bella e luminosa proprio come l'avevo sempre vista.
Non ci riuscì. Avevo un tonfo al cuore.
Strinsi la sua anima luccicante e la sospinsi di nuovo dentro al corpo.

Sì, io che sono la morte, quel giorno ho ridato la vita a qualcuno!
Ora vago nel mondo. Gli altri mietitori mi cercano, sono stata sostituita e accusata di tradimento ma io sono tranquilla così. Continuo a fuggire dai miei simili, i mietitori che rappresentano la morte, e ad amare le bellezze della vita.
Il sole continua a brillare sui capelli di Dianne e per me questo è il senso di tutte le cose belle, grazie a quel riflesso io riesco a guardare il mondo e vederlo sul serio. La consapevolezza che la vitalità di quella ragazzina continua a brillare nel mondo è bellissimo poiché esiste qualcuno che, con la sola presenza, continua a dare gioia… e vive ancora per merito mio.
Per me questa non è una fuga o un vero e proprio esilio ma è qualcosa di molto più importante: la morte che vive, nonostante pianga la solitudine e sia in uno stato di abbandono, lei vive e prova sentimenti belli e brutti per molte, molte cose.
La morte che ha scoperto quanto è bello essere vivi!

martedì 10 maggio 2016

Il coro degli angeli



Le loro voci erano soavi come quella di uno stormo di magnifici usignoli uniti in un unico cinguettio.
I loro sorrisi vivaci e allegri.
Erano dieci belle ragazze con la passione per il canto che condividevano anche la fede in Dio. Cantavano nel coro di una chiesa dopo raramente continiavano a stare insieme per pizzate o giri fra i negozi ma la loro amicizia era comunque profonda, sentivano di appartenere a qualcosa di più grande e più bello della loro singola identità.
La loro "Ave Maria" era così bella e perfetta che quando la cantavano (o nelle prove o durante le messe) riusciva a elevare al cielo la fede che provavano nel cuore. Tutt'e dieci ringraziavano Dio per averle fatte arrivare lì a cantare, insieme,  in quel coro.
Illuminate erano anche le persone che le ascoltavano.
I loro angeli custodi guardandole tutte sorridenti, prese dalle canzoni sacre che soavi cantavano, si sentivano fieri delle loro protette e gioiavano unendosi alle loro voci. Le persone in chiesa non potevano udire le voci angeliche ma quando anche i propri angeli custodi prendevano a cantare, avvertivano nel cuore una gioia indescrivibile.
Mentre i dieci angeli custodi coinvolgevano in quel canto tutti gli angeli custodi di quelli che udivano le voci delle protette anche dal cielo qualcuno si univa al coro.
Tutti gli angeli dei cieli sorridendo si univano al canto. Dai cherubini agli arcangeli. L'amore e la pace si propagavano nel cielo e sulla terra e Dio guardava quel coro di dieci ragazze e annuiva fiero.
Tutto ciò che è bello, spesso, viene insidiato dal male.
Il male che vedeva le ragazze migliorare giorno dopo giorno e provava invidia, poiché i suoi figli peggiorano di giorno in giorno.
Il male che le vedeva unite e provava rabbia, poiché i suoi figli si dividono.
Quel male che le guardava ridere e andare d'accordo e provava odio, poiché i suoi figli fanno guerra anche a costo di distruggere cose belle.
Fu allora che il male decise di intromettersi e Dio lo lasciò fare sperando che le sue figlie tanto brave e fedeli superassero quelle prove.
La prima prova fu quando una sola di loro dieci era stata scelta per un lungo assolo. L'invidia delle altre fu così grande da farle discutere alla prima occasione.
Una delle ragazze approfittando dell’assenza di quella ragazza tanto invidiata a una prova le rubò l'assolo.
La discordia e le liti si erano insinuate nel gruppo.
Un'altra prese a rinfacciare gelosie alle altre, e in quella discussione qualcuna si vantò di essere più brava e più bella.
I giorni avanzavano, le dieci ragazze cantavano tuttora bene ma dentro i cuori di alcune aveva preso a insidiarsi l'odio.
La gente ammirava ancora la loro bravura ma i loro angeli custodi le guardavano in silenzio avvertendo che la loro devozione mentre cantavano non era più come prima.
Dal cielo Dio le guardava sperando che vincessero il male che le stava mettendo alla prova.
Un altro giorno due ragazze litigarono perché una aveva comprato il vestito che l'altra aveva addocchiato da prima. Le altre presero a prenderle in giro per la stupidità della lite.
Si erano creati dei gruppetti e fra di loro, col passare dei giorni, volavano tremende cattiverie.
Qualcuna provò a ricordare che erano un gruppo ma ormai il gruppo si stava dividendo.
Le litigate si erano fatte più frequenti e ingigantite. Finivano per discutere tutte e dieci, dicendo ognuna le proprie cattiverie e ricevendone altre a sua volta.
Ora non cantavano più come il soave coro che erano state, anzi facevano accordi discordanti e spesso qualcuna partiva in anticipo per far risuonare la sua voce prima delle altre.
Sentendo la discordia impadronirsi di quel canto, i loro angeli custodi piangevano.
Anche gli altri angeli iniziavano a piangere provacando un fastidioso malessere ai loro protetti.
Nel cielo risuonava il pianto di tutti gli angeli come un lamento unico.
Ascoltando i suoi angeli Dio guardava le sue dieci figlie e si rattristiva. Prese a versare lacrime che si riversarono sulla terra sottoforma di.pioggia.
Pioveva!
Il tempo non rallegrava né calmava di certo l'umore di quelle ragazze.
Piano piano alcune lasciarono il coro, altre restarono ancora.
Finì così quel gruppo di dieci ragazze che insieme riuscivano a far cantare gli angeli in cielo. Non sembravano più voler tornare unite e serene come prima, alcune faticavano persino ad ammettere quanto fosse bello il ricordo degli attimi lì... unite a cantare per loro ma sopratutto per la loro fede!
Dal cielo Dio aspetta paziente che queste ragazze superino le prove del male e tornino a fare cantare gli angeli in terra e in cielo.

martedì 12 aprile 2016

Il cavaliere e lo spettro nella tormenta





Le notti erano fredde e ventose in quel periodo.
I monti s'innalzavano al cielo.
Respirare diventava come se mille aghi di ghiaccio si conficcassero nei polmoni.
Un giovane cavaliere trottava sul suo destriero seguito, a piedi, dal suo giovane scudiero. Il mantello color arancio svolazzava lungo la schiena e il fodero di una spada pendeva dalla cintola.
Aveva una carnagione olivastra e una folta capigliatura nera. Zigomi che sembravano incastrati con perfezione su quel magnifico volto dai lineamenti fini.
Il suo scudiero era un ragazzetto alto e magro che camminava fiero ed eretto.
«Riposiamo qui» disse il nobile fissando un'inclinazione a forma di grotta sulle pareti della montagna. Non era profonda ma creava un ottimo riparo sia dalla pioggia che dal vento.
E il giovane Lord Theodor Riversun lo sapeva, avrebbe piovuto.
Smontando guardò lo scudiero che si affaccendava a prendere le briglie. Gli sorrise. «Adrian tu va pure ad arrangiare dei giacigli, al cavallo ci penso io» disse.
Annuendo quello aggrappò la sacca con le coperte e si allontanò.
Theodor lo guardò fiero. Sapeva che soffriva il freddo ma sembrava sempre pronto a rendersi utile. Non si lamentava mai, e non perché era muto, Adrian riusciva a biascicare delle parole nonostante la sua voce assumeva un tono un po' strozzato. Non essendo sordo però preferiva non dover udire la sua voce.
Uno scudiero che faceva ben poca compagnia ma che in poche cose riusciva a farlo star bene. Il ragazzo era figlio di un conte, per questo difetto del figlio aveva faticato a trovare un cavaliere che lo accettasse come scudiero ma poi aveva incontrato il Lord di Riversun. Da subito lui si era detto che anche se muto Adrian discendeva da una dinastia di addestratori di cavalli, nessuno scudiero avrebbe curato il suo stallone meglio di lui.
Legò le briglie in una corda che assicurò attorno a uno spuntone roccioso. Sistemò un telo pesante sulla sella per riparare il cavallo dal freddo. Lo abbeverò e fece in modo che avesse da mangiare.
Il giovane scudiero aveva già arrangiato due brande con delle coperte e stava cercando di tagliare il pezzo di cervo affumicato che ormai era la loro unica risorsa di cibo. Per farlo usava un vecchio coltello poco tagliente, erano giorni che Theodor si diceva di doverlo affilare.
«Usa il mio pugnale» disse il cavaliere, porgendogli l'arma in questione tenendola per la lama.
Il ragazzo lo prese con due mani., con fare quasi cerimonioso.
Sorridendo il cavaliere lo guardò tornare alla carne. Sedette sul giaciglio fissando il cielo che pareva proprio promettere tempesta.
Si rifocillarono e dopo si stesero per dormire un po'.
La tempesta non si fece attendere. I nuvoloni e la pioggia a catinelle. Il vento soffiava come se fosse il padrone incontrastato di quelle contrade, spesso sospingeva la pioggia dentro il loro riparo.
Qualche goccia aveva fatto sussultare il giovane scudiero.
Lord Theodor Riversun di tanto in tanto alzava lo sguardo sulla tempesta. Sapeva che sarebbe grandinato e che poteva persino scatenarsi la neve. Non era certo un buon posto per restare bloccati per una tormenta di neve. Osservò Adrian che aveva spostato indietro il suo giaciglio.
Ora il ragazzetto era avvolto nella coperta di tela. Un ciuffo di capelli che sbucava come una coda di volpe da quel caldo fagotto. Adrian soffriva molto il freddo ma finché non veniva il momento di accamparsi stringeva sempre i denti.
Stavolta anche il cavaliere si sentiva assopito. Non vedeva un inverno così rigido da anni!

La neve aveva preso a scendere.
Il terreno era già una distesa difficile da praticare. I segni degli zoccoli del cavallo erano stati nascosti alla vista da quando il cavaliere aveva deciso che anche il suo stallone doveva riuscire a raggiungere il loro rifugio.
Le uniche tre presenze in quel luogo sonnecchiavano. Non si udiva altro che silenzio. Una muta calma che rendeva sereni.
Tutto era bianco e tutto era fermo.
All'improvviso un suono vibrò nell'aria.
Una voce melodiosa, un cantico sull'amore.
Risuonava dolcemente in tutte le zone adiacenti alla montagna.
Il cavaliere ne fu svegliato subito. Si mise seduto e iniziò ad assaporare quel canto misto alla calma paradisiaca del paesaggio tutt'attorno.
Una voce di donna. Cantava la ricerca dell'amore. Una ricerca che l'aveva fatta soffrire.
Era estasiato da quella voce di cui aveva solo sentito parlare in passato. E ora poteva udirla!
Quando la voce si fece più alta e la canzone risuonava con un timbro più acuto,  Adrian si tirò su preso dalla sorpresa. Fissò prima la neve e poi il suo signore.
«Ne avevo sentito parlare.» disse Lord Theodor «Narrano che in queste montagne vive lo spettro di una donna che canta del suo amore perduto, di quanto lo ha cercato e di come continuerà sempre a cercarlo. È proprio una bella voce, non credi?»
Annuendo con enfasi Adrian sorrise, e dopo lasciò scorrere gli occhi lungo le vette e il cielo assaporandone l'attimo.
«Chissà se potremo anche vederla!» esclamò il cavaliere. E poi si perse nell'enfasi di ciò che sapeva. «Certe volte, dicono, appare bella e cinta in un abito di seta azzurra, altre invece con un mantello di tela e sporca di sangue. Narrano che appaia in modi differenti in base all'animo di chi la vedrà.»
Sgranando gli occhi il giovane scudiero lo aveva fissato.
«E dice di cercare un cavaliere, un dragoniere diverso dal resto del mondo».
Nella mente di Adrian quel cavaliere non poteva che essere Theodor Riversun ma cosa doveva farne lo spettro della donna dell'uomo giusto? Più di tutto il giovane scudiero temeva che volesse tramutarlo in spettro.
Il vento creava un sottofondo appena accennato mentre la voce si faceva sempre più melodiosa.
A un certo punto in mezzo alla tormenta, lontana centinaia di passi, fu visibile una donna. Il vestito azzurro svolazzava fra la neve spiccando all'occhio. Aveva lisci e brillanti capelli biondi, un biondo così chiaro che parevano quasi fili d'oro.
Boccheggiando per la sorpresa Adrian si era sporto in avanti. Guardò il suo signore e gli sorrise vedendolo meravigliato quanto lui, infine tornò alla figura che sembrava volteggiare.
Leggiadra e bella la fanciulla spettro aveva passeggiato fin poco lontano da loro. Non sembrava aver cattive intenzioni, in realtà forse non li aveva nemmeno notati... o sì? Ogni tanto era come se lanciasse un'occhiata curiosa verso di loro magari guardava solo la neve.
La tormenta di neve si faceva via via più forte.
Lo spettro sembrava alimentare la tristezza col suo canto.
La sua voce risuonava melodiosa e disperata. Anche se non si capivano perfettamente tutte le parole, se ne distingueva la maggior parte,  il significato di quei versi non poteva sfuggire a chi lo ascoltava.

"Una maledizione é stata nascere,
Scoprire l'amore...
Ma quale amore e quale vita
Se il mio cavaliere mi ha ferita?
Vorrei solo che si redima, non lui stesso
Ma l'uomo!
Un cavaliere può farmi andare,
Nella pace dell'anima portare il mio cuore"
Questa era la strofa che ripeteva più spesso. Cantandola la sua voce vibrava di un dolore e una malinconia indescrivibile. Una sensazione unica che riusciva a riempirti l'animo di una sorta di empatia improvvisa.
Lord Theodor Riversun riuscì a scorgere le lacrime che il suo scudiero muto cercava di nascondere chinando il capo e lasciandosi coprire dai capelli spettinati e crespi. Scosse la testa con un sorriso e poi tornò a fissare la tormenta di neve avvolgere lo spettro di quella donna bellissima.
Finii per sparire fra la neve. Proprio come era apparsa era svanita come fosse stata risucchiata dalla tempesta.
La pioggia, la neve, il vento, la tormenta e la tempesta si placarono lentamente.
Il cielo finì per rischiararsi.
Ogni presagio di tempesta sparì.
Quando la stessa mattina i due ripresero il cammino c'era ancora nell'aria una sorta di dolce malinconia. Entrambi i viaggiatori erano ancora con la mente alla donna spettro, al suo canto e a quella magica notte.
Proprio dalla vetta una grande ombra oscurò il sole.
Sussultando Theodor alzò il capo verso il cielo.
Un enorme drago d'argento si stava levando in volo proprio su di loro. Portò la mano alla lancia che teneva ben pronta vicino alla coscia. Strinse il bastone d'avorio.
Il ragazzino fissava il drago incredulo. Da quando era lo scudiero di Lord Theodor Riversun, cavaliere del re e grande dragononiere, ne aveva visti alcuni ma mai grandi come quello e tanto meno d'argento.
Era meraviglioso il modo in cui le squame del drago brillavano ai raggi del sole.
Il suo enorme corpo si librava su di loro con una magnificenza assoluta.
La sua bellezza fendeva l'aria.
Le sue immense ali dibattevano potenti e leggiadre.
Era proprio sopra di loro. I suoi occhi dorati li scrutarono.
Nonostante fosse lì per dargli la caccia Lord Theodor depose la lancia. Preferì restare fermo a contemplare i suoi occhi.
«Non ho il cuore di combatterlo» pronunciò malinconico.
Il giovane scudiero lo guardò per un attimo poi riportò i suoi occhi a quel magnifico esemplare.
Quando il drago era sparito oltre i monti aveva regnato un pacifico silenzio. Tutto era divenuto così paradisiaco. Il cielo lindo e brillante, la neve candida nonostante si stesse sciogliendo. Il sole luminoso. L'aria fresca e rinvigorente.
I due viaggiatori presero ad andare avanti, non avevano più nulla da dare lì, eppure con lo sguardo si voltavano continuamente indietro. Desiderosi di vedere ancora quei magici spettacoli che tanto li avevano affascinati.
La neve riprese a cadere lenta. Il vento leggero la sospingeva dolcemente.
Una figura veniva loro incontro.
Le movenze delicate e un passo lento.
Lo spettro della donna si presentò dinnanzi ai loro occhi come una fanciulla in carne e ossa.
La fissarono presi dallo stupore. Lord Theodor Riversun era affascinato dal suo viso perfetto, si sentiva quasi ipnotizzato.
Arrivò proprio di fronte a loro.
I suoi magnifici occhi scrutavano il cavaliere e lo scudiero.
«Perché non mi hai temuto?» domandò.
«Perché non avevo mai visto così tanta bellezza.» sussurrò Theodor e con aria presa «Ho sentito in questa bellezza il dono meraviglioso della vita! No, non sarò certo io a rovinare la tua perfezione».
Si guardarono negli occhi.
«Mi hai risparmiato, dunque?» domandò ancora incredula.
Il cavaliere annuì.
Fissando un po' una, un po' l'altro Adrian si domandava cosa succedeva.
Volgendosi allo scudiero la donna spettro sorrise. Gli accarezzò la nuca. «Sei lo scudiero di un gran signore» disse dolcemente. Tornò a guardare il cavaliere e poi chiese: «Sei un dragoniere? Rinuncia a esserlo e resta con me!».
Di già Adrian era sorpreso del fatto che la mano dello spettro lo avesse toccato ma udire quella proposta lo sorprese davvero. Con i suoi grandi occhi scuri scrutò il suo signore.
Lord Theodor Riversun sorrideva. Gli si leggeva in viso che quella richiesta lo rendeva felice, eppure sembrava stare riflettendo con minuzia. Scosse il capo negando.
«Per la stirpe a cui appartengo?» chiese.
«Non per la tua stirpe.» rispose «Per quella a cui, "io", appartengo».
Lei lo fissò con gli occhi languidi e poi con tono amareggiato pronunciò: «Se nemmeno il cavaliere che ha sentito tutto di me non può restare... chi mai lo farà?! Chi mai riuscirà a dimostrarmi che esiste qualcosa che va oltre l'onore cavalleresco e le battaglie?!»
«Se sono arrivato io, sono certo che ne verrà un altro... un altro che deciderà di rinunciare ai propri impegni e restare» disse sicuro il cavaliere.
«Allora andate e buona fortuna» sussurrò con un fil di voce la donna spettro.

Anche se non parlava, Adrian non era stupido. Ultimamente seguiva il suo signore, prendendosi cura del suo cavallo e osservava il suo profondo cambiamento. Gli sembrava malinconico, svogliato e depresso. Si era chiuso in sé stesso come se passasse le giornate in mute riflessioni che si dibattevano dentro di lui, persino a corte aveva continuato a restare taciturno.
Strigliando il cavallo Adrian guardò Lord Sellinghan, signore di Gallen. Gli aveva posato la mano sulla spalla chiamando il suo nome.
«Che è successo su quella montagna?» aveva chiesto quel nobile.
Nessuna risposa dal giovanotto.
«Avete visto lo spettro di cui si parla?» domandò.
Stavolta lo scudiero si costrinse ad annuire.
«E?»
Non voleva dirgli il motivo per cui Lord Theodor doveva essere così malinconico. Scosse le spalle e con voce stridula disse: «E niente... sssolo un f-fantasma».
«Perché allora è strano?» domandò ancora.
Scosse ancora le spalle.
«Capirò cos'è che non va.» s'incamminò fuori dalla stalla.
Seguendolo con lo sguardo Adrian sospirò. Tornò con amore a occuparsi del cavallo. Rimase a rimuginare chiedendosi cosa potesse essere che tormentava Lord Riversun, forse si era pentito di non essere rimasto con la donna spettro? Non se lo spiegava.
Quando qualche giorno dopo il re narrò di aver mandato un gruppo di dragonieri lì dove Riversun non era riuscito erano tutti in sala per il banchetto reale. Tutti consapevoli che il cavaliere non aveva trovato il drago d'argento che sua maestà desiderava tanto.
Strisciando la sedia rumorosamente Theodor Riversun si era alzato. Il suo sguardo grave trafisse persino il re. «Scusate, devo andare».
Correndo Adrian lo seguì. Fuori dalla sala reale gli aggrappò il mantello fissandolo interrogativo.
Si era voltato e aveva già scorto il punto di domanda sul suo viso.
«Resta qui, Adrian. Probabilmente io non tornerò mai più» pronunciò.
«Vengo con voi» disse inorridendo per la propria voce.
Accettando di buon grado la decisione del ragazzo quello camminò avanti, facendolo però aveva precisato che non sarebbero tornati mai più e che sarebbe finiti per essere giudicati traditori.
Al ragazzo non importava. Lui era cresciuto come il peso di una grande casata! Come poteva essere muto? Perché il destino infausto aveva donato un figlio incompleto a suo padre?! L'unico che lo aveva sempre rispettato era il nobile a cui faceva da scudiero, era pronto a tutto pur di essergli utile.

La neve ancora una volta invadeva quelle contrade.
La vista candida e una voce melodiosa erano tutto ciò che avrebbe voluto udire eppure i lamenti disumani di un drago d'argento risuonavano nell'aria. La bianca neve sporca di sangue.
Lance in mano a prodi cavalieri.
Scudi perforati.
«Theodor! Aiutaci!» vociò un uomo trafiggendo la zampa anteriore destra del drago.
Il ringhio vibrò mentre gli occhi del drago guardavano il nuovo venuto.
Tremando Adrian indietreggiò. Aveva già sentito dire che molti dragonieri avevano modi sanguinosi e crudeli ma ora li vedeva con i suoi occhi.
Lord Theodor Riversun estrasse la spada.
Nessuno poteva aspettarsi che si fiondasse con impeto contro gli altri cavalieri. Li prese di sorpresa e si batté con loro per poi ucciderli.
Mentre combatteva il drago si era alzato in volo. Insanguinato e debilitato aveva faticato a prendere quota e poi era sparito.
Il sangue sulla neve aveva tormentato parecchio la mente di Adrian mentre incerto seguiva il suo signore. Avevano errato fra quelle contrade con aria affranta, solo quando Lord Theodor si fermò Adrian alzò il capo.
Lo sorprese la vista della donna spettro.
Il vestito azzurro insanguinato. Il braccio e il viso feriti. Una poco promettente macchia scarlatta era concentrata all'addome.
Vedendola Lord Theodor corse avanti, sino a lei. La aggrappò e la strinse a sé.
Una donna spettro che era anche un magnifico drago dal colore dell'argento!
Ora Adrian lo aveva capito, non chiese nulla al riguardo. Si limitò a fissare il suo signore mentre prendeva in braccio la donna e la stringeva a sé
Il nobile la strinse. «Scusa se non ne ho avuto il coraggio prima» sussurrò e poi sporse le sue labbra a quelle di lei. Il loro bacio solleticò con una scossa di piacere ogni parte dell'anima, sfiorò l'infinito paradiso con la sua dolcezza.
Ammaliato Adrian guardò quella donna prendere sempre più colorito mentre le ferite sul suo corpo si rimarginavano. La magia di quel bacio sembrava tramutare in una donna vera quell'enigmatica figura che tuttora lo scudiero non riusciva a comprendere.
Sarebbero rimasti insieme, che fosse su quelle montagne o in cerca di un posto nuovo, i tre avrebbero sempre portato con loro la magia che aveva caratterizzato quei luoghi.

lunedì 14 marzo 2016

La strada della vita





Sotto delle gonfie borse violacee i suoi occhi erano abbozzati. I capelli neri crespi, in disordine, e sul volto un'espressione cupa.
“È così che volevi finire? Così?!” ripeteva una voce dentro di lei mentre il mascara le scivolava sulle guance guidato da molte lacrime.
I tempi d'oro di Ashley Pikwell erano stati intorno ai suoi sedici'anni (ora ne aveva trenta) ed è complicato capire com'è finita lì a rimuginare.
Nata e cresciuta a Silvermoon, una tranquilla cittadina a volte fin troppo noiosa, era sempre stata una vera bellezza con un sorriso vivace e quello sguardo solare e vispo che faceva sorridere.
Quando aveva sedici anni era solita girare in bici. Una bella bici bianca con un cestino rosso dove di tanto in tanto infilava il suo carlino "Poldo". La coda di cavallo svolazzava sempre stretta da un foulard e il suo viso senza un filo di trucco era ammaliante.
Aveva solo un unico, piccolo vizio... quel suo modo strasognante di farsi inseguire dai ragazzi.
Un giorno di settembre dell'87 si era fermata al bar del paese. Poggiata la bici vicino a un albero aveva recuperato Poldo con un abbraccio e, coi suoi jeans stretti, si era diretta al tavolo dei fratelli Backet. I suoi più cari amici fin dall'infanzia.
Bobby e Dyllan Backet erano gemelli eppure così diversi che per dimostrare di essere fratelli avrebbero dovuto mostrarti i documenti.
Uno era una specie di cowboy patito di corse d'auto e musica country, senza ritegno né freni; l'altro era un bel tipo appassionato di radio e ragazze ma così serioso e affidabile da non sembrare un diciassettenne. Entrambi i gemelli, poi, amavano il rock'n roll, le sale da ballo, il cinema e lei... Ashley Pikwell.
La ragazza lo sapeva bene. Tutti e due i fratelli, in determinate situazioni, le avevano dimostrato amore.
«Voglio andare a ballare stasera» annunciò sedendosi.
«Ti porto io» aveva detto subito Bobby aggiustandosi il cappello in testa.
«E io vengo con Kathrina Savanna» esultò Dyllan.
Aveva accettato senza problemi e la sera era già davanti la finestra con un vestito stretto sul seno e la colorata gonna ampia sopra al ginocchio. Aspettava che la dodge rossa di Bobby si fermasse sul vialetto di casa.
Le luci e la musica da discoteca avevano segnato i migliori anni della ragazza ma poi, quella sera mentre ballava ridendo con Bobby vide in Kathrina l'usurpatrice di una sua proprietà. Sì, gli altissimi e scatenati gemelli Backet li voleva suoi ancora per qualche anno... poi magari avrebbe sposato Jeremia Sepkin che era più ricco e leggeva lo stesso genere di libri che piaceva a lei.
Si staccò dalla stretta di Bobby e si avvicinò all'altro che cingeva Kathrina fra le braccia, pronto per il lento.
«Dyllan, com'era quella cosa delle stazioni radio?» chiese alimentando ciò che al ragazzo piaceva, sempre, spiegare. Quello rispose subito ma lei finse di non riuscire a capire. «Andiamo fuori. Non ti sento!» disse e allontanandosi si volse agli altri e li bloccò precisando: «Stiamo tornando».
Naturalmente non tornarono per un bel pezzo.
Passeggiarono. Lui parlava della radio e del suo funzionamento, di come funziona il lavoro nelle stazioni e lei lo ascoltava con sguardo molto preso e un'espressione sensuale.
Sedettero su una panchina e lì lei lo fece suo con dei dolci baci alla francese. Insieme decisero di non dire nulla a Bobby... non ancora.
Così Bobby continuava a inseguire con amore Ashley in giro per Silvermoon e Dyllan fingeva che non fosse successo nulla fra lui e la ragazza.
Quando Dyllan iniziò a lavorare al suo progetto "Radio Silvermoon", l'altro gemello si applicava con passione alle corse d'auto e così i gemelli Backet non erano più gl'indivisibili fratelli che facevano tutto insieme.
In quel periodo Ashley Pikwell era molto intima con il composto bellone, Dyllan ma aveva trovato una perfetta armonia col selvaggio Bobby. Amava i pomeriggi a baciarsi seduti vicino al mare con uno mentre l'altro era a correre ma adorava anche le serate a sfrecciare sulla macchina rossa fino in discoteca o al fast-food.
Di ritorno da un pranzetto con amici Ashley guardava Bobby che guidava.
La cappotta abbassata, il vento fra i capelli e i movimenti bruschi della macchina su quel terreno incolto.
«Perché devi sempre trovare scorciatoie fuori strada?» chiese con un mezzo sorriso.
Quello ricambiò il sorriso e poi guardò avanti. «Non ti da un senso di libertà?» domandò. Accelerò tenendo salde le mani sul manubrio. «Guarda bene avanti! Non sai dove finisce e non ci sono strade corrette da seguire!» urlò mentre il cappello da cowboy gli ricadeva all'indietro.
Fissando i suoi capelli selvaggi ondeggiare al vento e il cappello rimasto legato al suo collo tramite un laccio, lei scosse la testa. «Non ci sono strade corrette da seguire e non sai dove finisce, eh?» domandò sarcastica ma fissò davvero avanti a sé e vide solo erbaccia, terreno sterrato e qualche cespuglio di more qui e là. L'unica sicurezza era che Bobby evitava di schiacciare proprio le more, per un attimo pensò fosse perché gli piacevano ma dopo sospettò fosse perché quei cespugli avevano le spine.
«Non vedo nulla d'eccezionale» commentò sarcastica.
«Vuoi vederlo?», chiese ridendo lui ,«Allora tieniti forte». Accelerò. La macchina sobbalzava ancora di più. Il vento era più forte. Non sembrava essere cambiato molto, a parte la velocità, poi però sgommò e curvò. Si buttò verso la collina e sembrò che l'auto a tutto gas vi fosse saltata sopra, e poi di nuovo giù con un balzo.
Oltre la collina sporgeva quel promontorio erboso che s'ergeva sul mare brillante al sole. L'odore di salsedine si respirava come fosse parte stessa dell'aria in quella zona.
«Ya-hoo!» vociò a pieni polmoni il cowboy sterzando proprio in bilico a quel burrone sotto il quale scintillava quell'acqua limpida e lucente.
Il brivido si era fuso con la fiducia che Ashley provava. S'alzò in piedi e con tutta la voce che aveva gridò: «Ya-hooooo!»
In quell'attimo il foulard a pois verdi e viola le scivolò via liberandole i capelli. La sua lunga chioma svolazzava libera al vento senza che se ne fosse resa conto mentre la dodge frenava.
«Dove vai?» chiese sconcertata di vederlo scendere e correre via. Si volse indietro e lo guardò inseguire il suo foulard trasportato dal vento. Rise di gusto.
«L'ho recuperato» esultò lui risalendo in macchina. Gli e lo porse.
«Tienilo tu», disse e sorridendo lo prese e gli e lo legò al collo, «un regalo per il mio scapestrato cowboy preferito!».
Si sorrisero con il cielo che azzurro li guardava e il mare che profumava l'aria.
Le sembrò che lui si fosse mosso per baciarla e così volse lo sguardo altrove e accese la radio. Risuonò proprio la voce dell'altro gemello che annunciava una canzone dei Beatles. "Yesterday".
Lui la fissò mentre a occhi chiusi ascoltava quella canzone iniziare. Per quanto tutti credessero che lui fosse un tipo distratto e superficiale, Bobby non lo era affatto. Sapeva che lei doveva già essersi sbilanciata con suo fratello, aveva già percepito quando e ne immaginava il come. «Non c'è bisogno che tu e Dyllan mi nascondiate che è nato qualcosa, ok?», disse sicuro. «Mi piaci, sì, ma me ne farò una ragione».
Ashley lo fissava sorpresa di così tanta schiettezza.
«Davvero, mi va bene... la cotta per te mi passerà».
Scosse il capo. Non era poi così certa di voler essere dimenticata. Lo guardò e sorrise decidendo che non voleva rispondere ma solo guardarlo dolcemente.
Lui rispose all'occhiata e poi, in fretta, tornò a mettere il moto.
Dapprima la ragazza era rimasta in bilico senza dimostrare nulla. Non voleva sbilanciarsi o ammettere ciò che Bobby aveva già capito.
Avvenne un pomeriggio al mare. Con lei e i due fratelli Backet c'era Kathrina Savanna, avvinghiata a Dyllan. Continuando a scherzare serenamente Ashley provava a ignorare ma senza risultato. Non riuscì a trattenersi e alla prima occasione sbaciucchiò Dyllan, il suo ragazzo.
Di certo Dyllan era stato piacevolmente colpito di poter uscire allo scoperto e l'aveva stretta a sé con disinvoltura.
Mentre le loro labbra erano dolcemente unite Ashley scorse lo sguardo dell'altro gemello. Le si spezzò il cuore scorgendo il suo sorriso sforzato e gli occhi lucidi. Chissà se fu l'unica a notarli per quel breve istante poiché Dyllan, nonostante si fosse sempre preoccupato per il fratello, non sembrò allarmato di incrociare poi il suo sguardo.
Era sempre rimasto tutto come prima. Lei e i gemelli Backet ridevano e scherzavano come sempre, andavano insieme al mare, uscivano con gli amici comuni. L'unica differenza era che lei e Dyllan formavano una bella coppia, acclamata da tutti, mentre Bobby li guardava con un sorriso un po' stentato.
Negli anni avevano continuato a essere così.
La radio di Dyllan era ora molto popolare anche nelle cittadine attorno a Silvermoon, e un fonico di una radio di New York si era dimostrato interessato ad affidargli la conduzione di un programma serale. La paga era buona e l'idea di vivere a New York a Dyllan piaceva da morire.
La dodge rossa di Bobby invece non lo stava portando lontano. Era solo l'assistente del vecchio meccanico di zona e faceva sempre le sue stupide corse... stupide perché nel gennaio dell'89 aveva quasi perso la vita in un incidente.
A diciannove anni, nel '90, Ashley Pikwell si era resa conto di non avere più uno straccio d'ammiratore se non il fratello del suo ragazzo. Il suo modo di vestire le appariva ora serioso, ed erano anni che non saliva in sella alla sua bici portando l'ormai anziano cane Poldo nel cestino. Era felice nonostante continuasse a chiedersi perché Bobby portava ancora il suo foulard al collo.
All'inizio Dyllan partì per New York da solo.
I capelli neri di Ashley furono stretti con un fiocco di seta, anche se quel nuovo foulard grigio, rosso e blu era un po' strampalato. Poldo rimise piede sul cestino e l'anima della ragazza si lasciò riprendere dalle vecchie abitudini.
Le era mancata la sua bici ma le mancava anche passeggiare mano nella mano col suo Dyllan. Il suo Dyllan che da New York le aveva mandato un peluche enorme e un mazzo di rose con un biglietto che diceva: "Se lo vorrai l'anno prossimo ti sposerò".
Quella sera al chiaro di luna Bobby la stava riportando a casa, avevano già riaccompagnato l'amica Meg Reinalt ed erano rimasti un poco in silenzio. Non capitava più spesso che restassero soli sulla sua dodge o durante le serate insieme.
«Meg ha una cotta per te» scherzò Ashley.
«Non m'interessa anche se è carina».
La ragazza guardò i suoi capelli che svolazzavano al vento e l'espressione corrucciata, infine osservò quel foulard al suo collo. Le moriva dentro quella domanda ogni volta che provava a farla, eppure quella volta sentì che era il momento, forse la sua unica occasione di trovarne il coraggio. «Bobby», disse notando che lui l'aveva subito guardata di sottocchio, «perché dopo quanto… quattro anni? Hai ancora quel foulard al collo?»
La domanda aveva avuto un effetto sorprendente sul ragazzo. L'aveva fissata con sorpresa e poi era tornato nervosamente con gli occhi sulla strada. I suoi occhi erano lucidi. «Che domanda è? Non lo hai sempre saputo?» chiese cercando di sviare ma dando una risposta fin troppo esplicita.
«Vorrei dirti ciò che provo però non posso...» sussurrò. In realtà lei si chiedeva come sarebbe stato passare quattro anni su quella macchina con lui mentre i capelli al vento svolazzavano e le loro voci urlavano "Ya-hoo!" eppure aveva preferito un "per tutta la vita" con Dyllan. «Io voglio sposarmi e avere tanti figli» mugolò.
«Dyllan è il perfetto padre e marito. Chiaro.» l'interruppe bruscamente Bobby. Il suo tono era duro e freddo come se sapesse perfettamente cosa pensasse lei e non voleva sentirglielo dire. «L'ho sempre saputo.» disse e sorridendo «Guarda che accelero se continui a parlare».
Nonostante quel discorso finì lì, in un avviso e una risata, all'improvviso Ashley si era ritrovata a stare al fianco di Dyllan scambiandosi sguardi con Bobby. Per anni lei continuò a incrociare gli occhi di lui e sentire come gli parlassero, come se le confessassero tutta la passione e l'amore che il ragazzo provava per lei.
Il matrimonio unì Dyllan e Ashley ma bastava uno sguardo di Bobby per separare il cuore di lei da quello del marito.
L'anno dopo Bobby sposò Kathrina Savanna e all'improvviso smise di guardare sua cognata con quello sguardo che diceva più dei "ti amo" già rari di Dyllan.

Il tempo scorreva.
Gli anni sfioravano e intrecciavano le loro vite.
Mentre il matrimonio di Ashley iniziava ad andare a rotoli, l'angoscia dell'ormai donna accresceva.
Il suo rimorso di ogni giorno si chiamava Bobby Backet.
Guardava i colletti delle camicie di suo marito sporche di rossetto e invece di reagire si chiedeva: "Chissà se Bobby tradisce Kathrina?". Tutte le volte che, dopo una scenata di gelosia, Dyllan le strillava contro le peggiori offese pensava a Bobby e si chiedeva se urlava mai così con sua moglie o i suoi figli.
Ora era lì, a trent'anni.
Sotto delle gonfie borse violacee i suoi occhi erano abbozzati.
I capelli neri crespi, in disordine, e sul volto un'espressione cupa.
“È così che volevi finire?! Così?”, continuava a ripeterle una voce dentro di lei, mentre il mascara le scivolava sulle guance guidato da molte lacrime.
Il suo Dyllan, quello serioso, affidabile e pronto a esser un padre fantastico e un buon marito l'aveva picchiata, nella stanza accanto a dove dormivano i loro bambini solo perché non voleva chiudere la relazione con la sua assistente.
Lei si stringeva l'addome insanguinato e fissava terrorizzata la forbice da giardino che suo marito aveva in mano.
«No... non volevo finire così», mugolò chiudendo gli occhi e con un fil di voce, «voglio solo tornare sui miei passi...»

Che shock ritrovarsi su quella dodge rossa con Bobby che non portava il suo foulard perché ce l'aveva ancora lei fra i capelli.
«Ya-hoo!» urlava con quella sua aria selvaggia che, ora, Ashley sapeva avrebbe contenuto diventando un bravo meccanico con una moglie (che sta volta desiderava tanto essere lei) dei figli, un cane e una casetta a Silvermoon.
Ora Ashley avrebbe potuto scegliere.
Rise. «Ya-hoo!» urlò alzandosi in piedi e poi ripeté quello che lui le aveva detto sulle corse d'auto e che a lei risultò vero anche nella vita: «Non sai dove finisce e non ci sono strade corrette da seguire».

Un po' invecchiato in viso ma sempre di una bellezza selvaggia, visto i suoi modi e i capelli lunghi, Bobby Backet stava guidando la sua dodge rossa.
Si volse a guardare Ashley al suo fianco.
Gli occhi chiusi. Il viso ancora privo di rughe. I capelli in disordine e il mascara che colava sulle guance.
La sentì dire "Ya-hoo" e dopo udì quella frase che per lui aveva segnato il momento più importante fra loro. Non si aspettava che la ricordasse, e quando i suoi nipoti lo avevano chiamato nel bel mezzo della notte avvisando che Dyllan la stava picchiando e chiedendogli di portarla in ospedale, non si era certo aspettato di vederla morire sulla sua auto rincorrendo i ricordi... o forse i rimpianti?