In my blog

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venerdì 25 dicembre 2015

Desideri di natale.

Una stella cadente brillò nel cielo durante la vigilia di natale della piccola Sophia. Proprio mentre si stava mettendo a dormire, dalla sua stanza illuminata da un piccolo lume. Gli occhi della piccola avevano fissato quella stella con aria sognante e la sua voce aveva sussurrato un desiderio semplice.
«Vorrei che questo natale fosse bellissimo!»
Si svegliò presto e subito si diresse in salotto. Sorrise felice di scoprire che babbo natale la aveva accontentata.
In quell'albero immenso all'angolo fra salotto e cucina spiaccavano quelle palline di cristallo risaltate dalle luci colorate, posizionate strategiacamente dietro. Gli angeli dorati e argentati attaccati da nastri brillanti. E ancora, palline a forma di fiocchi di neve, di slitta, o semplicemente dai colori sgargianti.
In basso c'erano decine e decine di pacchetti regalo.
Sophia li fossò con aria sognante.
Alle sue spalle sua madre faceva il suo ingresso. Sorrideva e la stringeva a sé suggerendole poi di scartare i regali.
Sembrava un sogno.
Quei regali così belli. La casa per le bambole, la bici, vestiti nuovi, il grosso peluche rappresentante una tigre che la bambina aveva tanto desiderato.
La meravigliosa giornata con i suoi genitori che per quel giorno, finalmente, non lavoravano. Avevano voluto portarla a passeggiare, a guardare i grandi alberi di natale in centro, a farsi foto, ed avrebbero cenato in quel ristorante che a mamma piaceva tanto.
Sembrava un sogno.

Alzando la testa dal cuscino Sophia si stiracchiò. Con le sue babbucce a forma di coniglioetto camminò sino al salone.
Guardò quel piccolo alberello di natale con le luci e le palline blu di varie forme. Non era proprio la stessa cosa.
Fissò quei tre pacchetti regalo sotto l'albero. Di sicuro uno era quello della sciarpa che mamma aveva fatto per papà, l'altro doveva essere la piastra per capelli che papà aveva preso per mamma. Il terzo era per Sophia.
Le parve abbastanza grande.
Camminò per il corridoio sino alla camera dei genitori.
Dormivano ancora. Suo padre russava drasticamente e sua madre aveva profonde occhiaie... dopotutto entrambi avevano lavorato fino a tardi lasciandola a casa della zia. Quando erano tornati a prenderla sbadigliavano ed erano di poche parole.
«Come volevasi dimostrare, era solo un sogno» mugolò.
Andò ad infilarsi nel loro letto e dormì un'altra oretta.
Il suo unico regalo era una casa delle bambole costruita dai suoi genitori ma con tutti i confort e l'arredamento che desiderava.
Avevano mangiato a casa, sia per pranzo sia per cena ma avevano passeggiato e fatto le foto.
I suoi genitori avevano fatto gli straordinari la vigilia per passare tutto il giorno di natale con lei.

Quello che pensò Sophia una volta messa a letto la notte di natale fu che era felice così. «É stato proprio un bel natale» disse.
Non avranno avuto un albero gigantesco e ricco di decorazioni sotto il quale c'erano regali più costosi e numerosi ma, sotto il suo piccolo albero, aveva giocato con la sua casa delle bambole mentre mamma e papà le avevano narrato come avevano costruito quella sedia o la parete, oppure quell'altra cosa così graziosa.
Una giornata insieme a ridere e far foto, passeggiando era tutto ciò che aveva bisogno Sophia per essere felice, perché alla fin fine la gioia di passare del tempo con chi ami é il desiderio di tutti.

mercoledì 18 novembre 2015

L'angelo e la morte.




Tutta una nuova prospettiva dal resto del mondo.
Una visione profonda e complessa su cosa fosse e non fosse la vita.
Il vecchio Fojak aveva sempre vissuto in simbiosi col mondo... sempre a guardare con gli occhi, raramente con l'anima, giudicando ogni cosa e concentrandosi sul proprio concetto di felicità.
Ora era vecchio, brutto e zoppo. Non aveva nessuno se non quel figlio che viveva oltre oceano. Niente. Nulla per cui svegliarsi al mattino e nulla per cui provare un po' di soddisfazioni alla sera.
Una notte qualcosa risveglió la sua anima assopita dalla monotonia.
Era una tranquilla notte d'agosto, nall'aria vi era Una leggera umidità che di certo avvisava del clima torrido che sarebbe seguito. Dalle tende soffiava un piacevole venticello e la tv copriva perfettamente l'assordante silenzio delle vecchia casa.
 Fojak era in mutande sul divano. Proprio come ogni domenica sera. La barba un po' ispida e la fronte sudata.
Sussultò ad un rumore.
Si alzó ed imprecando avanzó sino alla finestra.
Era il solito gatto che rovistava nel suo bidone!
Battendo le dita sul vetro l'uomo lo minacció come se la bestia potesse capire le sue parole.
E le capí. Il gatto sfrecció via.
Soddisfatto il vecchio si giró vecchio verso il divano.
Gli sembró di vedere un'ombra. No, non gli era sembrato ne era quasi certo.
Notte nervosamente si toccó la testa pelata (o quasi). Si sentiva come un vecchio che aveva appena visto qualcosa di inspiegabile.
Decise che era l' ora di andare a dormire.
Il sonno fa brutti scherzi! Davvero brutti si disse il vecchio Fojak.
La scala che portava alla camera da letto alla penombra della tv era cupa. Per questo Decise di accendere il lume.
La luce che dissolve le tenebre e le paure si suol dire... e che fare quando questa illumina cose che mai vorresti vedere?
 Fojak ad esempio urló. Voció con tutta l'anima facendosi bruciare il fiato in gola.
Un corpo di donna, giovane e bella. Un volto soave, le guance rosee e delle fossette infantili. Un dolce angelo.
Una bella visione generale se non fosse per la peculiarità di vederle attraverso!
Sì, di certo viste le ali Fojak sapeva che si trattava di un angelo ma perché i suoi occhi gli avevano trasmesso terrore puro?
Forse rimane una consolazione la storia che la morte sia una figura ammantata di mistero e paure, forse é più traumatico trovarsi un divino angelo dall'aspetto sereno e l'espressione grave.
L'angelo non parlò.
Nei suoi occhi il buon vecchio Fojak vide tutti i peccati che aveva commesso nella sua vita. Una sensazione straziante che tormentava il cuore.
Quegl'occhi meravigliosamente azzurri ylo avevano afferrato, imprigionato e cominciavano ad ossessionarlo.
L'aria gli veniva a mancare e il battito del cuore era accelerato.
Un fremito lo spronava a parlare. Fojak Non riusciva a percepire se avesse o no mosso le labbra.
L'azzurro di quegl'occhi diveniva ogni attimo più acceso. Fiamme si facevano spazio dal fondo di quell'oceano di dolce dolore. Fiamme sempre più grandi e
impetuose.
A Fojak sembrava di sentire il loro calore sulla pelle. Un dolore lancinante al petto.
Riuscì a muoversi ma solo per cadere a terra. Seduto sul vecchio pavimento con gli occhi fissi su quel tormentato sguardo.
L'angelo era fermo, quella seta che le copriva le zone intime e quegli zigomi statuari. Dai suoi occhi ora stavano sgorgando lacrime calde.
Lacrime versate per suoi peccati pensò Fojak.
Le palpabre si stavano chiudendo e la bocca liberò un ultimo flebile sibilo. Dopo il buio.
La tv ancora accesa era sintonizzata ora su un canale di televendite.  Il lume ancora acceso ad illuminare solo una stanza silenziosa e un uomo a terra.
Un uomo che era morto di attacco di cuore nella solitudine di una vita ormai vuota. Senza amici né compagna... sua moglie era andata via molti anni prima dopo che luo stesso l'aveva picchiata.
All'improvviso un'altra possibilità ed il ritorno a vivere.
Dio! La prima boccata d'aria rinvenendo è davvero un dono di Dio!
Rinvenuto dopo essere morto Fojak aveva visto i suoi peccati e le sue mancanze negl'occhi paradisiaci di una bellissima donna angelo ma a dir il vero non era cambiato molto.
Per il resto dei suoi pochi anni il vecchio uomo non si riavvicinò al figlio, né all'ex moglie. Non fece beneficenza e neanche buone azioni. Fojak si limitò a godersi la vita con più intensità attorniandosi di amici e conoscenti. Viaggiò e molto anche!
Alla fine morì due anni dopo di cancro al cervello... imparabile sin dall'inizio della malattia.
Sel letto di morte ringraziò un invisibile angelo per averlo esortato a godersi la vita.
"Grazie di avermi mostrato quel'era per me il significato di Vivere" le sue testuali parole.











sabato 10 ottobre 2015

Sensazioni dall'aldilà.








09/10/2015

Vivido dentro di me sentivo un insano terrore ardere, nonostante non ne avessi motivo, nonostante fossi sempre stata senza paura. 
La faccia pallida e spettrale mi guardava.
I capelli neri le ricadevano scomposti ai lati del viso.
L'espressione... proprio di uno spettro che non ha pace.
Mi guardava. Era lei!
D'istinto feci per colpirla.
Volevo scacciarla da casa mia, volevo che quel fantasma sfuggisse alla mia vista!
Il sangue prese a sgorgare dai graffi sulle mie mani,  in fiumi di un rosso vivo che in pochi istanti si disegnarono sulle mie braccia. Li guardai sfociare veloci come le lacrime che mi scorrevano per il viso. C'era tanto sangue ma lei non c'era più.
Fissai lo specchio rotto, lo stesso avevo appena colpito.
Un altro. Forse stavo impazzendo eppure non riuscivo più a guardarmi allo specchio senza vedere anche lei. Lyla, la mia gemella era morta da qualche mese a causa di un incidente stradale. Quei durissimi mesi a sopportare la sua assenza e a temere, in un certo senso, la sua presenza. Mio marito, i miei genitori, i miei amici ripetevano di calmarmi e parlare con uno psicologo. All'inizio sembravo stare migliorando ma poi cominciai ad avvertire qualcosa.
Penserete che io stia farneticando ma non è così, cominciai a notare piccoli cambiamenti in me, nell'aspetto, nei modi di fare e di vestire. I miei stessi vestiti mi calzavano in modi che non avevo mai usato. Stupidaggini che un estraneo non può certo capire, come non può nemmeno distinguere due gemelle e si sorprende anche se i loro stessi genitori invece ci riescono. Ecco, queste piccolezze sono le cose di cui parlo.
All'inizio credevo di stare impazzendo ma una sera, a cena a casa dei miei, lessi sul volto di mia madre che per un attimo anche lei aveva visto Lyla in me. Proprio mentre indossavo il cappotto e lo chiudevo partendo dal bottone in basso, un'abitudine che mai avevo prima che mia sorella morisse e che invece era solo sua!
Il medico dice che ho una specie di psicosi e per questo sto prendendo le abitudini di mia sorella ma lui non vede ogni notte il mio riflesso allo specchio. Nemmeno io vorrei guardarlo eppure è più forte di me. Se non appare sto male, quando la vedo urlo e desidero che sparisca.
Ogni notte amo piazzarmi davanti al lavello per vedere se somiglio ancora di più a Lyla, cerco un indizio che mi ricordi che sono ancora me stessa. Vorrei sorridere e scorgere il mio sorriso.
Vedete, quando sono sola e provo a sorridere a quello specchio vedo sul mio volto una smorfia di dolore. Forse perché Lyla non è felice o magari perché la fa soffrire il fatto che io possa ancora sorridere... in effetti se è la seconda opzione, lei stessa mi sta togliendo il sorriso. Non la odio per questo, la amo ancora.
Vorrei scordare il nostro legame ma non ci riesco. Siamo sorelle, gemelle, nate per non separarsi e solo Dio sa, quanto odio ed amo il fatto che nemmeno la morte ci abbia separate.

Ora, distrutto un altro specchio aspetterò che torni Dexter e mi porti dal medico... ancora!
Dexter, mio marito, è un uomo paziente e calmo. Siamo sposati da meno di un anno e mi ama alla follia, credo sia per lui che continuo ad ascoltare pareri psichiatrici e medici, altrimenti mi sarei già arresa alla triste evidenza.
Ecco che mentre scrivo la rivedo attraverso la mia ombra.
Lyla aveva il vizio di accarezzarsi i capelli mentre scriveva. Il suo diario delle medie ne conteneva sempre qualcuno fra le pagine. Riecco quel gesto.
Ogni volta che scorgo queste cose ho difficoltà a capire come comportarmi. Dovrei sorridere per i ricordi che sovraggiungono o piangere per il terrore? Non credo otterrò mai una risposta corretta ma è consolante già il sol porgere la domanda, mentre nell’indecisione faccio entrambe le cose assieme.
Ho la sensazione che di notte Lyla sosti vicino alla porta della mia stanza e mi osservi dormire. Consolante ed inquietante al tempo stesso, eh!
Chissà poi perché sto seguendo l'idea strampalata di un medico di tenere un diario in cui parlare di me e Lyla dopo l'incidente. Tutto ciò che mi sembra di scorgere, vedere o sentire (non che io abbia mai sentito nulla di strano, grazie a Dio!) però devo ammetterlo che dall'attimo in cui la penna è partita in quinta mi sento meglio.
Sapete chi si rilassava con la scrittura? Già proprio lei, Lyla!
È un pensiero che mi tormenta questo, davvero sto seriamente temendo di diventare lei e mi chiedo se in me resterà qualcosa di me a parte l'identità in sé!
Ora ho visto l'ombra di me stessa alzarsi ma io sono ancora seduta.
Sta camminando verso di me, eppure io non mi sono mossa di un sol passo. Si avvicina con quella camminata vispa che tanto ci differenziava.
Sto tremando e le lacrime sgorgano senza che io le possa fermare, eppure sorrido anche perché la mia sorellina è con me.
Ho appena sentito la sua voce che mi chiamava per nome!
Sento i brividi sulle braccia eppure le ho lanciato un sorriso, un sorriso vero. Forse per evitare di ferirla cerco di nascondere la paura che provo dopotutto lei è qui con me, per proteggermi, perché è tuttora molto legata a me e io continuerò sempre a non farle pesare la sua presenza extra-terrena qui sulla terra.
Mi ha chiamata di nuovo per nome.
La sua voce ora comincia a suonarmi più forte e reale.
Le ho detto di dirmi perché non è andata in pace. Che sorpresa! Mi ha risposto: "La tua felicità". Che sensazione piacevole scoprire che la mia sorellina è rimasta su questa terra per vegliare su di me, finché non ritroverò la felicità. Di certo sa che l'aveva persa con lei!
Ormai è quasi al mio fianco come fosse il mio riflesso e invece è ancora lei.
Sapete? Proverò ad abbracciarla, chissà se l'attraverserò o riuscirò a sfiorarla!




Questo diario è stato ritrovato a terra, di fianco al cadavere della sua autrice, Theresa Renours, strangolata da delle mani con dita lunghe e sottili eppure dalla forza innaturale.
A seguire di queste parole il diario riportava una scritta che analizzata è risultata la calligrafia della sorella gemella, Lyla Renours, morta in un incidente avvenuto alcuni mesi prima della data riportata dalla vittima. Questa seconda calligrafia scriveva:

Avevi la casa che sarebbe piaciuta a me, il cuore dell'uomo che anch'io desideravo… e la vita.
Una cosa sola mi ha tenuto qui, a osservarti dallo specchio, a seguirti come un'ombra, a guardarti dormire vicino all'amore della mia vita: non potevo arrendermi alla morte sapendoti felice!
Volevo toglierti quel sorriso idiota dalla faccia, e la vita da quegli occhietti furbi che hanno sempre finto di volermi bene.


venerdì 2 ottobre 2015

Aspettando la morte.




La torre bianca sembrava toccare il cielo.
La balaustra che s'affacciava a corte delle sale principali del castello era illuminata dal sole del meriggio. Il cielo così limpido e azzurro.
Una dama si ergeva bella come il riflesso della Dea Venere sulla terra. Le braccia incrociate davanti al petto sulla balaustra, i capelli che ricadevano in vivaci riccioli neri ebano, il viso tondo e roseo ravvivato da quelle piccole labbra carnose. Vestiva di seta e organza, nastri e di una tonalità blu acceso... come i suoi occhi. La duchessina di Hergik aveva una bellezza innata e si diceva fosse innamorata del giovane cavaliere che accompagnava sempre il conte Darius Follegni, il più importante dei suoi pretendenti.
Anche quel giorno lei sembrava essersi perduta nella contemplazione del bel cavaliere mentre questo si occupava dei loro cavalli alle stalle. La bella fanciulla lanciò uno sguardo alla sua dama di compagnia che era troppo impegnata ad ammiccare fissando il suo adorato garzone del castello. Scosse il capo e s'allontanò di soppiatto, scese le scale fissando sempre la sua meta.
"Ralph Ximer" si ripeteva ed il cuore le esplodeva in gola.
«Buondì, cavaliere» lo salutò. Incrociò i suoi occhi e sentì come dentro di lui ardeva lo stesso amore che provava lei. Lo vedeva chiaro nel suo sguardo.
«My lady Candice» risuonò profonda la sua voce.
Si guardarono.
Dopo essersi salutati tutto era superfluo, sapevano perfettamente cosa l'altra voleva dire e cosa avrebbe risposto lui.
«Sai se ripartirai?» domandò lei.
Lui si tirò indietro i capelli biondi, crespi visto che il vento li aveva tormentati durante la cavalcata di quel giorno. «Non finché il conte pensa di avere una possibilità per la vostra mano»
«Gli darei persino me stessa pur di non vederti partire» si avvicinò e guardando le sue mani grandi poggiate sulle briglie di un magnifico puro sangue sorrise. Allungò timidamente la mano e gli e la poggiò sopra. «Se lo rifiuto invece, potrò mai rivederti?»
«Vorrei fuggire dall'onore d'essere cavaliere ed abbandonare il signore che servo ma non posso...» sussurrò lui guardando quei magnetici occhi blu. Lo avevano stregato, ammaliato!
«E se accettassi il corteggiamento del tuo padrone continueresti ad amarmi?» il tono della fanciulla era quasi inquisitore. Lo fissò con più impeto e dopo domandò: «Riusciresti a toccare le mie labbra con le tue mentre ci ritroviamo al fiume?»
«Non potrei più»
Annuendo la bella fanciulla sospirò. Era incappata in un amore impossibile e se ne rendeva perfettamente conto eppure non riusciva ad odiare quella magnifica sera in cui si erano incontrati al fiume. Lei ed il suo bellissimo cavaliere.
Lei, lui e tutte quelle sere che si erano rincontrati. Quanti baci le aveva rubato e quanti sogni le aveva ucciso.
«Non sopravviverei vedendoti dentro queste mura senza poterti avere» mugolò e ritirando ora la mano «sarò così crudele col tuo signore cossiché non torniate mai più».
Il cavaliere la guardò a malincuore. Sentirle dire così era un tormento per le sue orecchie.
«Candice» sussurrò sottovoce come se persino il vento poteva sentirlo «potrei dirti che ti dimenticherò, che andrò avanti lasciandomi alle spalle questo amore impossibile ma ti giuro non è così». La guardò con gli occhi lucidi. La sua voce tremava flebile mentre l'espressione si faceva cupa. «Io vivrò ogni giorno come cavaliere d'onore» disse «ma sarò già morto. Morto senza i tuoi occhi, morto senza le tue labbra, morto soffocando l'amore che provo.» una piccola lacrima gli scivolò via su una guancia «Sarò morto aspettando di smettere di vivere perchè, anche se quì ci è stato negato, Dio nei cieli non ci negherà la possibilità di amarci. Io vivrò tutta la vita col vuoto nel cuore poiché una volta nel paradiso dei cieli potrò viverti».
Fissandolo con aria presa la fanciulla si lasciò sfuggire dei singhiozzi tormentati. «Allora, mio amore, anche io sono già in balia della morte... aspettando di potermi riunire a te» sussurrò e guardando il conte che s'avvicinava sottovoce aggiunse: «Ti dico addio ed accolgo l'attesa della morte, quando sarà arrivata giuro ti ritroverò».
Si narrà che l'attimo in cui Lady Candice Hergik rifiutò la mano del povero Darius Follegni fu teatrale e che mai la bella fanciulla era stata così spietata e deplorevole. Per molti anni il conte rifiutato evitò le fanciulle a corte. Si vociferava di una profonda ferita al suo orgoglio che stava tormentando il suo animo.
Una ferita che si estendeva in odio poiché nonostante avesse finto di non aver capito in realtà conosceva bene il motivo di quel rifiuto. "Ralph Ximer" si ripeteva. Sapeva che il suo fedele cavaliere aveva sempre mantenuto il giuramento di cavaliere verso la sua casata, non lo aveva tradito o abbandonato. Lo guardava ogni giorno, a volte gli sembrava che soffrisse più di lui. Rinunciare alla bella Candice per l'onore verso una casa di nobili... era così ammirevole!
Troppo, visto che lui invece si era indebolito a un rifiuto, visto che tutti vedevamo il solcro che lui, un "conte", si portava dietro.
Così col passare degli anni la ferita divenne un cumulo di risentimento poi rabbia ed infine odio puro.

La notizia che il conte fece condannare il suo più fidato cavaliere fece il giro delle contrade attirando la dolorosa presenza di una contessina che in quegli anni aveva rifiutato ogni tipo di corteggiamento. La sua bellezza per le strade del regno di howghen aveva lasciato il segno nei ricordi di chi l'aveva vista. I riccioli nero ebano, il magnifico viso tondo, le labbra rosee come un bocciolo di rosa e quegli occhi, blu come la notte e scintillanti come il mare illuminato dai raggi di luna. Avvolta in un vestito color pesca col bustino stretto in vita e le ampie gonne.
Aveva indugiato nella piazza principale, davanti al patibolo delle impiccaggioni.
Le lacrime e i singhiozzi la facevano tremare mentre fissava il suo amato cavaliere che dondolava pensoloni col cappio al collo. Qualcosa che nessuno avrebbe mai voluto vedere, poteva segnare l'inizio di una ulteriore tristezza eppure nel suo cuore echeggiavano le parole del suo perduto amore. Corse alle mura, più disperata che mai.
Chi la vide da vicino quel giorno racconta di aver scorto un sorriso sul suo viso.
Passò vicino alle guardie per le mura di ronda, fino ad arrivare sopra la piazza.
Si buttò e sembrava quasi volasse in quella sua maestosa bellezza che la portò a morire proprio ai piedi del patibolo dove giaceva già il suo perduto amore.
Sembrava quasi che il cadavere del cavaliere la fissasse con aria triste, con quei suoi occhi spenti e sbarrati di fronte alla morte.
Si narrà che pochi minuti dopo la morte della bella Lady Candice si siano udite delle risate allegre e felici e che i presenti non abbiamo mai capito da dove provenissero.
Io personalmente, che sono una guardia reale e faccio la ronda a quelle stesse mura ogni notte posso dire solo una cosa... nelle notti di luna piena, quando la luce illumina abbastanza la piazza ho visto una coppia di spettri che passeggia tenendosi per mano ed ho sentito le loro risa.
Lui ripete sempre che aspettava con ansia di vivere con lei dopo la morte e lei lo ringrazia ogni attimo di averla aggrappata in volo.

domenica 30 agosto 2015

SIAMO!

Spiegando le ali i pensieri volano a tutto quello che sono,
a ogni cosa che sei e che siamo.
Le mani sempre strette e i passi lenti, o veloci in base alla nostra destinazione.
La vita scorre come una strada, odora di vissuto.
Tutto attorno a noi tace senza disturbare le nostre risa e le chiacchiere,
l'unico rumore rimbomba allegro.
Non m'interessa il resto, non m'interessa dei pensieri ottusi degli altri,
non m'interessa che qualcuno possa non capirne il motivo...
Io sono felice di come siamo!

lunedì 24 agosto 2015

Piacere per il sangue.



Sospesa a metà fra il prendere coraggio e sopravvivere, stavo cadendo nel baratro della morte. Incolpavo Dio di salvarmi sempre, ogni volta che ero quasi riuscita a uccidermi... ecco che tornava la vita.
Miranda Colerz è il mio nome e sono sfuggita ben otto volte al suicidio. C'ero così vicina quando, dopo essermi tagliata le vene, il mio sangue aveva invaso e riempito la vasca... un bagno rillassante che stava per portarmi la serenità eterna. 
Invece sono ancora qui.
Vorrei narrarvi di quanto trovavo piacevole vedere scie di sangue sul mio corpo, come se quel rosso guizzasse sulla mia pelle pallida, probabilmente vi sembrerò una pazza masochista ma chi non ha mai provato una curiosità per il sangue? Pensate,c'é stato un momento in cui volevo essere un vampiro ma poi... un morso e bere del sangue? No, ora vorrei essere una di quelle bestie che dilania la sua preda a morsi e graffi ma sono solo una pazza suicida che non riesce nel suo scopo. 
Dopo la dimissione dall'ospedale sarei stata ospite di mio fratello e sua moglie per un po' di tempo. Ero grata per le loro gentilezze, non fraintendetemi, eppure qualcosa stava implodendo in me. Continuavo a vedermi appesa al lampadario della cucina con una corda che opprimeva il collo, questo pensiero tormentava e consolava le mie notti, i miei giorni e i miei sensi. 
Volevo essere solo questo: un corpo morto che penzolava dal lampadario. 
Per questo motivo invece di migliorare, peggioravo. 
Cominciai a non mangiare più, a stare chiusa in quella stanza con le persiane chiuse, priva di luce che illuminasse la mia penosa esistenza. Cominciavo a odiare i tentativi dei miei familiari... "Prova a mangiare! Prova a uscire! Te la senti di cenare con noi? Te la senti di andare dal medico?" Ripetevano in quei giorni. Mi avevano nascosto tutti gli oggetti taglienti, ogni cosa che potessi usare per uccidermi. 
E così mi stavano uccidendo senza però lasciarmi morire in pace.
Cosa succede a un'anima in pena quando non ha più niente per quei vivere? Sì, proprio quello: la morte.
Una notte non riuscì più a contenere quella voglia di morte, scesi in cucina... i coltelli e gli utenzili erano tutti nel cassetto chiuso a chiave, in giro non c'era nulla che potessi usare. Cominciai così ad agirarmi nervosamente per la casa, al piano di sotto, al piano di sopra. Mi fermai sulle scale e dopo tornai in cucina. Salì di nuovo le scale. Le mani mi tremavano, il mio corpo fremeva sfiorando quella ringhiera. 
Guardai in basso. 
No, da quell'altezza non sarei mai morta, ci avevo già provato da un'altezza migliore. 
La rabbia mi guidò a camminare nervosamente per il corridoio. Stavo impazzendo... forse ero già impazzita! 
La porta scricchiolò e fissai, presa alla sprovvista, quell'angioletto di mia nipote. 
«Zia, stai di nuovo male?» mi chiese, e con un sorriso così dolce da rubarmi un sorriso. «Se vuoi dormi con me e ti consolo io.»
Avrei dovuto sentirmi meglio, lo so, eppure mi sentì invadere di rabbia. 
Guardaì quella bimba poco più che decenne e l'ira prese il sopravvento! 
Le aggrappai quei capelli biondi e lisci, presi a sbattere quella testa contro il muro fissando il sangue sporcarle il visino. Fu una goduria vedere quel liquido caldo imporporare il suo viso angelico. 
Non aveva nemmeno avuto il tempo di gridare, piangere, o tanto meno reagire. 
Quando il suo viso divenne una poltiglia irriconoscibile di sangue e ferite aperte, la lasciai andare e godei della morte sul suo volto, non appena toccò terra con un tonfo. Fu allora che capì che il sangue era ancora più bello sui corpi altrui, decisi di riprovare subito e mi addentrai nella camera di mio fratello. 
La luce accesa in corridoio, filtrava dalla porta che avevo lasciato socchiusa.
Dormivano così profondamente: mia cognata sorrideva nel sonno come io non sorridevo da anni. Fissai il lume di ferrobattutto che, molti anni prima, io stessa gli avevo regalato. 
Leggero, maneggevole e appuntito. 
Lo aggrappai strappando la spina dall'interruttore e andai vicino al letto. 
Non so come, trovai lo spazio e il coraggio di salire sul letto.
Strinsi il lume con etrambe le mani tenendone la punta all'ingiù e, con tutta la forza che avevo in corpo, la piantai nel torace di mio fratello.
Aveva urlato, svegliando anche sua moglie.
Entrambi stavano urlando. Entrambi mi avevano guardata come se avessero appena visto un mostro.
Piazzai un altro colpo in pancia a mia cognata, e poi di nuovo in quella di lui. Si era mosso per reagire, ma facendolo aveva favorito il mio attacco. 
Nonostante la semioscurità distinguevo la macchia di sangue ingigantirsi su quel lenzuolo chiaro. Una macchia che mi sembrava brillare! M'invase un senso di goduria infinito che poi si tramutò in una specie di assurdo orgasmo vedendo i rivoli di sangue che schizzavano fuori dalla bocca di mio fratello. 
Colpì ancora più forte.
Un altro colpo, e ancora uno, finché i loro corpi non fossero stati pieni di buchi, da cui il sangue sgorgava rosso. Un rosso immemore, capace di colorare per sempre quel ricordo insano e truce. Il mio ricordo insano e truce!
Questa è la storia di come io, una pazza suicida, sono diventata una pazza serial killer che gode alla vista del sangue. Ve la racconto come fossi una madre fiera, che narra dell'esperienza magnifica della nascita di suo figlio.
A voi lascio lo spazio di immaginare, inorridire, fantasticare o vomitare.

mercoledì 5 agosto 2015

Alla fine un angelo...



Succedeva tutto in tempi e luoghi molto lontani, quando la magia non era solo un mito dimenticato e l’onore era una parola che non veniva sottovalutata. Vi erano giorni in cui la normalità vibrava quieta e vi erano anche quei giorni in cui la normalità non esisteva più.
Una fanciulla dal viso pallido avanzava svelta per le strade di Houk, fissando un po’ le case di pietra, un po’ quella stradina di ciottoli che portava ai campi. Si voltava indietro. Temeva di essere seguita, dopotutto i suoi sensi la tormentavano.
“Figlia di strega” continuavano a ripeterle e lei invano provava a trattenere le lacrime a quell’accusa, per questo tutto erano del parere che lei si vergognasse della sua discendenza. La cosa che costoro non sapevano era che lei stessa era una strega… una strega che odiava il potere che avrebbe potuto scatenare e che avrebbe preferito essere una semplice contadinella. Tremava per ciò che aveva fatto solo qualche attimo prima.
Da lontano fissò i vasti campi che si estendevano verdi nella notte, lungo tutto il sentiero che portava fuori dal villaggio sino al fiume. Un fiume dove la graziosa fanciulla avrebbe volentieri voluto annegare. Un ontano segnava la posizione di una piccola fattoria, distante ancora delle miglia, da cui brillava una luce altalenante come una candela che veniva smossa dal vento.
Si fermò un attimo a guardare in quella direzione. I suoi occhi scuri brillavano risoluti e le sue labbra si comprimevano fra di loro in una smorfia nervosa, in quel momento dal cappuccio del mantello le scivolava via un ricciolo dal color dell’oro, forse ancora più brillante. Un sospiro e tornò a camminare.
«Thomas!» vociò bussando alla porta di legno scuro «Apri, ti prego»
Il giovane che aprì la porta era un bel ragazzone dagli occhi limpidi ed i capelli scompigliati che gli ravvivano il viso asciutto. La sua espressione quando incrociò lo sguardo di lei fu piena di compassione. Le aggrappò le spalle e cauto chiese: «Che succede, Phidelia?»
Il suo tono, la sua voce rassicurante, il modo in cui la strinse… come poteva Phidelia non abbandonarsi a lui? Si lasciò stringere cominciando a singhiozzare disperata, per un attimo provò a parlare ma dalla sua bocca uscirono solo dei singhiozzi soffocati, infine si ricompose. Lo guardò in viso. «Quel bastardo di Delavis ha provato a mettermi le mani addosso» mugolò e i suoi occhi si riempirono di maggiore disperazione «ho lottato, Thomas, mi sono solo difesa… ma l’ho ucciso! Fulminato dai miei poteri»
«Come fulminato?»
«Un attimo prima il cielo era limpido e sereno, dopo io urlavo e scalciavo ed un fulmine è caduto giù proprio su di lui. Sembra strano ma so di averlo evocato io!» mugolò lei.
Si guardarono. I loro occhi dicevano cose che a parole non si sarebbero mai confessati. Chinandosi contro il suo viso il giovane Thomas Ferwill le baciò una guancia e con le dita andò ad asciugarle gli occhi. Entrambi sapevano cosa stava per accadere.
«Se ti trovano ti metteranno…» non osò finire la frase che si riscosse. Amava quella fanciulla, strega o non strega, non poteva permettere che le accadesse qualcosa… non senza lottare. «Prendi il mio cavallo e vai» comandò.
«Non senza di te»
«Sai che quella bestia è vecchia, col peso di entrambi verrà rallentata.» fu chiaro lui, la squadrò con una certa dose di sarcasmo e le prese il viso fra le mani «Se prendi il mio cavallo io posso discolparmi, se prendono te non me lo perdonerò mai. Morirei di dolore. Io me la caverò».
Consapevole di non aver altra scelta Phidelia osservò quel viso incoraggiante, consapevole che era l’ultima volta che vedeva quegli occhi e quel sorriso. Le lacrime le scivolavano calde come sgorgassero da sole, le sfioravano le guance lasciando scie di bagnato e rischiaravano la disperazione sul suo volto. Le labbra le tremarono per un istante. «Ci rivedremo. Tornerò.»
«Ti aspetterò» sussurrò lui dolcemente.
Volgendosi alla porta lei ci sperò davvero. Indietreggiò di un passo e tornò a scrutare il suo volto. «Stai attento!» si raccomandò. Lui annuì e lei poco convinta gli tornò a fianco. Si buttò fra le sue braccia e si lasciò stringere un’altra volta.
Le loro guance bagnate da lacrime amare e i loro singhiozzi disperati. Avevano avuto così tanto tempo per conoscersi e così poco per amarsi.
«Vai ora!» disse Thomas spingendola verso la porta «Sella il cavallo, io metto dei viveri in una sacca».
Di certo in quella sacca di tela sbiadita c’era tutto ciò che serviva alla bella fanciulla, lei ne era consapevole ma sapeva anche che tutto quello che desiderava sarebbe rimasto lì, a Houk… nel dannato villaggio di Houk. Le belle passeggiate con Thomas, le risate mentre cavalcavano lungo il fiume, il loro silenzioso guardare le stelle. “Perché mentre fissavamo le stelle non ho detto più cose? Perché non gli ho confidato quanto lo amo?” si chiedeva Phidelia cavalcando via. Si voltava indietro di tanto in tanto e le sembrava già di udire il verso dei cani issati al suo inseguimento, forse anche da così lontano poteva udirli davvero! Solo quando il villaggio di Houk fu lontano si rese conto di come stava singhiozzando e si malediva per quello che era successo.
Non cavalcò per molto tempo quando un’improvvisa fitta le colpì il petto, sofferente si aggrappò al collo del vecchio animale chiazzato. I ciuffi della criniera scura le solleticarono il viso ma non bastò a farla ridere. Quei suoi oscuri poteri non solo l’avevano cacciata in quel guaio, le tolsero anche tutte le speranze di rivedere un giorno il suo amato.
I rantoli soffocati di Thomas smorzavano il silenzio mentre tre guardie armate tutte di pugnale lo fissavano con sguardo crudele. Per terra, con le mani si teneva la gola dalla quale sgorgavano scie di sangue, fissava con gli occhi sbarrati i suoi assassini. Dimenandosi provò ancora a parlare, avrebbe voluto dirgli che Philedia era salva e gli era sfuggita ma riuscì solo d emettere un suono strozzato che sembrava più un verso animalesco. Provava un bruciore alla pelle ed era come se il sangue all’interno della sua bocca lo stesse soffocando. Riprovò due volte ma non gli usciva nulla più di quei rantoli. Odiava il fatto che quelli lo fissassero morire con scherno. Le sue labbra già paonazze si allargarono in un sorriso e con le ultime forze che aveva riuscì a parlare. «Mai» sibilò e mentre i suoi occhi diventavano vitrei. Ne era davvero convinto, non sarebbero riusciti a riprendere la sua amata… mai!
Un urlo si levò dalla foresta.
Fra gli alberi alti e maestosi, ancora a cavallo, la bella Phidelia urlava disperata. Le lacrime invadevano le sue guance setose e il dolore si era fatto padrone del suo viso, il suo colorito si era infiammato di una rabbia disperata e di tormento. Si volse indietro e poi tornò a fissare avanti. Avrebbe voluto tornare indietro ma qualcosa, forse nel suo animo buono, la tratteneva.
«Perché non sono crudele come loro?» urlò. La sua voce tremava e la rabbia di non aver più il suo Thomas ad aspettarla era un senso di colpa che si aggiungeva alla sua coscienza, l’unica a parlarle nella silenziosa solitudine.
Prese a cavalcare. Una sola cosa aveva resa serena la morte di Thomas, lei lo aveva visto in quel sorriso, la certezza che non l’avrebbero trovata mai più. “Non lo faranno!” si ripeteva e con le lacrime calde che le sembravano sgorgare “Per Thomas, non mi farò bruciare al rogo… da nessuno!”.
I giorni passavano lenti e fin a quel momento Phidelia aveva rispettato i voleri del suo amato, nessuno l’aveva raggiunta nonostante avessero provato ad inseguirla. Le sue condizioni però erano pessime, non era riuscita a mangiare quei panetti di segale che lui le aveva messo nella sacca e nemmeno a prender sonno. Si sentiva un vuoto dentro e riviveva ogni volta che chiudeva gli occhi il momento in cui la vita aveva abbandonato gli occhi di Thomas, il cambiamento vivido di quelle pupille scure che si spegnevano assumendo man mano un colorito vitreo come se la morte vi avesse messo sopra uno strato di orrenda membrana che va dal bianco al colore del ghiaccio. Inorridiva ogni volta che ci ripensava. In sogno aveva visto come avevano trattato al villaggio il corpo di Thomas… legato in piazza e poi bruciato.
«Non se lo meritava… vorrei tornare e ucciderli tutti» ripeteva nei suoi pensieri. Era riuscita da quell’orrenda visione del suo Thomas fra le fiamme ad avvertirne il tremendo puzzo di carne che bruciava… non un arrosto ma carne umana.
I suoi poteri le avevano sempre fatto vedere la morte, ed anche la vita ma chissà perché le rimaneva impressa nella mente solo la morte. Quante persone a lei care aveva visto morire.
Durante il suo viaggio scivolò in uno stato di odio e disperazione tale da fissare un precipizio e pensare di buttarsi… quanto male può fare volare giù nel vuoto a braccia spalancate? Alla povera Phidelia sembrava che di certo non poteva far male come tutto ciò che aveva vissuto, i suoi occhi svuotati dalle lacrime lo ammettevano sinceri, eppure qualcosa la spingeva ad esitare.
Prese un sospiro e si lanciò.
Spalancò le braccia.
Il vento le accarezzò il viso mentre i capelli sventolavano verso l’alto, sul suo viso c’era un sorriso sollevato e le lacrime di gioia le accarezzarono gli occhi.
Per qualche attimo tutto le parve scorrere veloce.
All’improvviso una luce la accecò.
Due grandi ali candide come la neve si ergevano attorno la figura di un uomo dai bellissimi capelli scuri e lunghi. I suoi occhi erano profondi eppure chi li guardava non sarebbe riuscito a scorgerne il giusto colore. Indossava un’armatura dorata con un rosso mantello brillante e nel cinturone si poteva ammirare una splendente spada dall’impugnatura intarsiata di gemme.
«C-chi sei?» balbettò Phidelia.
«Sono colui che viene a spiegarti ciò che tu sei!» rispose, e la sua voce era calma e suadente come poche altre cose al mondo «Ti sei difesa ed hai ucciso, ma ti sei mai chiesta perché non sei tornata al villaggio a vendicarti?».
La giovane scosse la testa.
«Da quelli come te, Phidelia, nascono gli angeli. Strega solo perché i poteri che Dio ti donò sono forti e incontrollabili»
«Ma io vedo più il male che il bene?»
«Cosa credi che siano gli angeli?» chiese con un sorriso e senza darle il tempo di rispondere «Gli angeli non sono altro che uomini che hanno amato, sono stati amati, hanno vissuto e sofferto. E dal dolore e le difficoltà hanno imparato la pietà; dalla tristezza e la paura appresero la comprensione e dalla morte appresero come usare con giustizia e generosità il loro potere». Le porse la mano e dolcemente le domandò: «Phidelia, sei pronta a divenire un angelo?»
La fanciulla fissò quel viso così perfetto e poi la mano che questo le porgeva. Una strada serenità le pervase l’anima e d’impeto aggrappò quella mano.
Si sollevarono verso il cielo.
Lanciando uno sguardo verso il basso Phidelia osservò per l’ultima volta il suo corpo. La testa rotta ed i capelli bagnati di sangue, la sua posa tranquilla quasi dormisse. Fu percossa da un attimo di euforia nel vedere, per una volta, la morte su sé stessa.
Quel guerriero angelico la portò verso il cielo che sembrava accoglierla con porte soffici e bianche in un azzurro tenue mentre il vento sembrava essersi fermato per non disturbare quella scena tranquilla.
Per l’ultima volta sulla terra Phidelia sorrise, felice che un angelo la stesse elevando al cielo.



mercoledì 29 luglio 2015

All'altezza del cielo, tendo le mani. Voglio aggrappare le stelle e portarle a me.
Che me ne farei di una stella pensi... che ne farei? Potrei guardarla brillare ricordando la notte in cui ho teso le braccia verso il cielo blu e sono riuscita a toccarle! ''Ho aggrappato le stelle'' potrei urlare consapevole allora di poter arrivare ovunque.
Mi sembra di tastare con mano dei dolci ricordi di tempi che furono.
Un sorriso si dipinge sul mio viso esternando quanta gioia ci sia in me :)