In my blog

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domenica 30 agosto 2015

SIAMO!

Spiegando le ali i pensieri volano a tutto quello che sono,
a ogni cosa che sei e che siamo.
Le mani sempre strette e i passi lenti, o veloci in base alla nostra destinazione.
La vita scorre come una strada, odora di vissuto.
Tutto attorno a noi tace senza disturbare le nostre risa e le chiacchiere,
l'unico rumore rimbomba allegro.
Non m'interessa il resto, non m'interessa dei pensieri ottusi degli altri,
non m'interessa che qualcuno possa non capirne il motivo...
Io sono felice di come siamo!

lunedì 24 agosto 2015

Piacere per il sangue.



Sospesa a metà fra il prendere coraggio e sopravvivere, stavo cadendo nel baratro della morte. Incolpavo Dio di salvarmi sempre, ogni volta che ero quasi riuscita a uccidermi... ecco che tornava la vita.
Miranda Colerz è il mio nome e sono sfuggita ben otto volte al suicidio. C'ero così vicina quando, dopo essermi tagliata le vene, il mio sangue aveva invaso e riempito la vasca... un bagno rillassante che stava per portarmi la serenità eterna. 
Invece sono ancora qui.
Vorrei narrarvi di quanto trovavo piacevole vedere scie di sangue sul mio corpo, come se quel rosso guizzasse sulla mia pelle pallida, probabilmente vi sembrerò una pazza masochista ma chi non ha mai provato una curiosità per il sangue? Pensate,c'é stato un momento in cui volevo essere un vampiro ma poi... un morso e bere del sangue? No, ora vorrei essere una di quelle bestie che dilania la sua preda a morsi e graffi ma sono solo una pazza suicida che non riesce nel suo scopo. 
Dopo la dimissione dall'ospedale sarei stata ospite di mio fratello e sua moglie per un po' di tempo. Ero grata per le loro gentilezze, non fraintendetemi, eppure qualcosa stava implodendo in me. Continuavo a vedermi appesa al lampadario della cucina con una corda che opprimeva il collo, questo pensiero tormentava e consolava le mie notti, i miei giorni e i miei sensi. 
Volevo essere solo questo: un corpo morto che penzolava dal lampadario. 
Per questo motivo invece di migliorare, peggioravo. 
Cominciai a non mangiare più, a stare chiusa in quella stanza con le persiane chiuse, priva di luce che illuminasse la mia penosa esistenza. Cominciavo a odiare i tentativi dei miei familiari... "Prova a mangiare! Prova a uscire! Te la senti di cenare con noi? Te la senti di andare dal medico?" Ripetevano in quei giorni. Mi avevano nascosto tutti gli oggetti taglienti, ogni cosa che potessi usare per uccidermi. 
E così mi stavano uccidendo senza però lasciarmi morire in pace.
Cosa succede a un'anima in pena quando non ha più niente per quei vivere? Sì, proprio quello: la morte.
Una notte non riuscì più a contenere quella voglia di morte, scesi in cucina... i coltelli e gli utenzili erano tutti nel cassetto chiuso a chiave, in giro non c'era nulla che potessi usare. Cominciai così ad agirarmi nervosamente per la casa, al piano di sotto, al piano di sopra. Mi fermai sulle scale e dopo tornai in cucina. Salì di nuovo le scale. Le mani mi tremavano, il mio corpo fremeva sfiorando quella ringhiera. 
Guardai in basso. 
No, da quell'altezza non sarei mai morta, ci avevo già provato da un'altezza migliore. 
La rabbia mi guidò a camminare nervosamente per il corridoio. Stavo impazzendo... forse ero già impazzita! 
La porta scricchiolò e fissai, presa alla sprovvista, quell'angioletto di mia nipote. 
«Zia, stai di nuovo male?» mi chiese, e con un sorriso così dolce da rubarmi un sorriso. «Se vuoi dormi con me e ti consolo io.»
Avrei dovuto sentirmi meglio, lo so, eppure mi sentì invadere di rabbia. 
Guardaì quella bimba poco più che decenne e l'ira prese il sopravvento! 
Le aggrappai quei capelli biondi e lisci, presi a sbattere quella testa contro il muro fissando il sangue sporcarle il visino. Fu una goduria vedere quel liquido caldo imporporare il suo viso angelico. 
Non aveva nemmeno avuto il tempo di gridare, piangere, o tanto meno reagire. 
Quando il suo viso divenne una poltiglia irriconoscibile di sangue e ferite aperte, la lasciai andare e godei della morte sul suo volto, non appena toccò terra con un tonfo. Fu allora che capì che il sangue era ancora più bello sui corpi altrui, decisi di riprovare subito e mi addentrai nella camera di mio fratello. 
La luce accesa in corridoio, filtrava dalla porta che avevo lasciato socchiusa.
Dormivano così profondamente: mia cognata sorrideva nel sonno come io non sorridevo da anni. Fissai il lume di ferrobattutto che, molti anni prima, io stessa gli avevo regalato. 
Leggero, maneggevole e appuntito. 
Lo aggrappai strappando la spina dall'interruttore e andai vicino al letto. 
Non so come, trovai lo spazio e il coraggio di salire sul letto.
Strinsi il lume con etrambe le mani tenendone la punta all'ingiù e, con tutta la forza che avevo in corpo, la piantai nel torace di mio fratello.
Aveva urlato, svegliando anche sua moglie.
Entrambi stavano urlando. Entrambi mi avevano guardata come se avessero appena visto un mostro.
Piazzai un altro colpo in pancia a mia cognata, e poi di nuovo in quella di lui. Si era mosso per reagire, ma facendolo aveva favorito il mio attacco. 
Nonostante la semioscurità distinguevo la macchia di sangue ingigantirsi su quel lenzuolo chiaro. Una macchia che mi sembrava brillare! M'invase un senso di goduria infinito che poi si tramutò in una specie di assurdo orgasmo vedendo i rivoli di sangue che schizzavano fuori dalla bocca di mio fratello. 
Colpì ancora più forte.
Un altro colpo, e ancora uno, finché i loro corpi non fossero stati pieni di buchi, da cui il sangue sgorgava rosso. Un rosso immemore, capace di colorare per sempre quel ricordo insano e truce. Il mio ricordo insano e truce!
Questa è la storia di come io, una pazza suicida, sono diventata una pazza serial killer che gode alla vista del sangue. Ve la racconto come fossi una madre fiera, che narra dell'esperienza magnifica della nascita di suo figlio.
A voi lascio lo spazio di immaginare, inorridire, fantasticare o vomitare.

mercoledì 5 agosto 2015

Alla fine un angelo...



Succedeva tutto in tempi e luoghi molto lontani, quando la magia non era solo un mito dimenticato e l’onore era una parola che non veniva sottovalutata. Vi erano giorni in cui la normalità vibrava quieta e vi erano anche quei giorni in cui la normalità non esisteva più.
Una fanciulla dal viso pallido avanzava svelta per le strade di Houk, fissando un po’ le case di pietra, un po’ quella stradina di ciottoli che portava ai campi. Si voltava indietro. Temeva di essere seguita, dopotutto i suoi sensi la tormentavano.
“Figlia di strega” continuavano a ripeterle e lei invano provava a trattenere le lacrime a quell’accusa, per questo tutto erano del parere che lei si vergognasse della sua discendenza. La cosa che costoro non sapevano era che lei stessa era una strega… una strega che odiava il potere che avrebbe potuto scatenare e che avrebbe preferito essere una semplice contadinella. Tremava per ciò che aveva fatto solo qualche attimo prima.
Da lontano fissò i vasti campi che si estendevano verdi nella notte, lungo tutto il sentiero che portava fuori dal villaggio sino al fiume. Un fiume dove la graziosa fanciulla avrebbe volentieri voluto annegare. Un ontano segnava la posizione di una piccola fattoria, distante ancora delle miglia, da cui brillava una luce altalenante come una candela che veniva smossa dal vento.
Si fermò un attimo a guardare in quella direzione. I suoi occhi scuri brillavano risoluti e le sue labbra si comprimevano fra di loro in una smorfia nervosa, in quel momento dal cappuccio del mantello le scivolava via un ricciolo dal color dell’oro, forse ancora più brillante. Un sospiro e tornò a camminare.
«Thomas!» vociò bussando alla porta di legno scuro «Apri, ti prego»
Il giovane che aprì la porta era un bel ragazzone dagli occhi limpidi ed i capelli scompigliati che gli ravvivano il viso asciutto. La sua espressione quando incrociò lo sguardo di lei fu piena di compassione. Le aggrappò le spalle e cauto chiese: «Che succede, Phidelia?»
Il suo tono, la sua voce rassicurante, il modo in cui la strinse… come poteva Phidelia non abbandonarsi a lui? Si lasciò stringere cominciando a singhiozzare disperata, per un attimo provò a parlare ma dalla sua bocca uscirono solo dei singhiozzi soffocati, infine si ricompose. Lo guardò in viso. «Quel bastardo di Delavis ha provato a mettermi le mani addosso» mugolò e i suoi occhi si riempirono di maggiore disperazione «ho lottato, Thomas, mi sono solo difesa… ma l’ho ucciso! Fulminato dai miei poteri»
«Come fulminato?»
«Un attimo prima il cielo era limpido e sereno, dopo io urlavo e scalciavo ed un fulmine è caduto giù proprio su di lui. Sembra strano ma so di averlo evocato io!» mugolò lei.
Si guardarono. I loro occhi dicevano cose che a parole non si sarebbero mai confessati. Chinandosi contro il suo viso il giovane Thomas Ferwill le baciò una guancia e con le dita andò ad asciugarle gli occhi. Entrambi sapevano cosa stava per accadere.
«Se ti trovano ti metteranno…» non osò finire la frase che si riscosse. Amava quella fanciulla, strega o non strega, non poteva permettere che le accadesse qualcosa… non senza lottare. «Prendi il mio cavallo e vai» comandò.
«Non senza di te»
«Sai che quella bestia è vecchia, col peso di entrambi verrà rallentata.» fu chiaro lui, la squadrò con una certa dose di sarcasmo e le prese il viso fra le mani «Se prendi il mio cavallo io posso discolparmi, se prendono te non me lo perdonerò mai. Morirei di dolore. Io me la caverò».
Consapevole di non aver altra scelta Phidelia osservò quel viso incoraggiante, consapevole che era l’ultima volta che vedeva quegli occhi e quel sorriso. Le lacrime le scivolavano calde come sgorgassero da sole, le sfioravano le guance lasciando scie di bagnato e rischiaravano la disperazione sul suo volto. Le labbra le tremarono per un istante. «Ci rivedremo. Tornerò.»
«Ti aspetterò» sussurrò lui dolcemente.
Volgendosi alla porta lei ci sperò davvero. Indietreggiò di un passo e tornò a scrutare il suo volto. «Stai attento!» si raccomandò. Lui annuì e lei poco convinta gli tornò a fianco. Si buttò fra le sue braccia e si lasciò stringere un’altra volta.
Le loro guance bagnate da lacrime amare e i loro singhiozzi disperati. Avevano avuto così tanto tempo per conoscersi e così poco per amarsi.
«Vai ora!» disse Thomas spingendola verso la porta «Sella il cavallo, io metto dei viveri in una sacca».
Di certo in quella sacca di tela sbiadita c’era tutto ciò che serviva alla bella fanciulla, lei ne era consapevole ma sapeva anche che tutto quello che desiderava sarebbe rimasto lì, a Houk… nel dannato villaggio di Houk. Le belle passeggiate con Thomas, le risate mentre cavalcavano lungo il fiume, il loro silenzioso guardare le stelle. “Perché mentre fissavamo le stelle non ho detto più cose? Perché non gli ho confidato quanto lo amo?” si chiedeva Phidelia cavalcando via. Si voltava indietro di tanto in tanto e le sembrava già di udire il verso dei cani issati al suo inseguimento, forse anche da così lontano poteva udirli davvero! Solo quando il villaggio di Houk fu lontano si rese conto di come stava singhiozzando e si malediva per quello che era successo.
Non cavalcò per molto tempo quando un’improvvisa fitta le colpì il petto, sofferente si aggrappò al collo del vecchio animale chiazzato. I ciuffi della criniera scura le solleticarono il viso ma non bastò a farla ridere. Quei suoi oscuri poteri non solo l’avevano cacciata in quel guaio, le tolsero anche tutte le speranze di rivedere un giorno il suo amato.
I rantoli soffocati di Thomas smorzavano il silenzio mentre tre guardie armate tutte di pugnale lo fissavano con sguardo crudele. Per terra, con le mani si teneva la gola dalla quale sgorgavano scie di sangue, fissava con gli occhi sbarrati i suoi assassini. Dimenandosi provò ancora a parlare, avrebbe voluto dirgli che Philedia era salva e gli era sfuggita ma riuscì solo d emettere un suono strozzato che sembrava più un verso animalesco. Provava un bruciore alla pelle ed era come se il sangue all’interno della sua bocca lo stesse soffocando. Riprovò due volte ma non gli usciva nulla più di quei rantoli. Odiava il fatto che quelli lo fissassero morire con scherno. Le sue labbra già paonazze si allargarono in un sorriso e con le ultime forze che aveva riuscì a parlare. «Mai» sibilò e mentre i suoi occhi diventavano vitrei. Ne era davvero convinto, non sarebbero riusciti a riprendere la sua amata… mai!
Un urlo si levò dalla foresta.
Fra gli alberi alti e maestosi, ancora a cavallo, la bella Phidelia urlava disperata. Le lacrime invadevano le sue guance setose e il dolore si era fatto padrone del suo viso, il suo colorito si era infiammato di una rabbia disperata e di tormento. Si volse indietro e poi tornò a fissare avanti. Avrebbe voluto tornare indietro ma qualcosa, forse nel suo animo buono, la tratteneva.
«Perché non sono crudele come loro?» urlò. La sua voce tremava e la rabbia di non aver più il suo Thomas ad aspettarla era un senso di colpa che si aggiungeva alla sua coscienza, l’unica a parlarle nella silenziosa solitudine.
Prese a cavalcare. Una sola cosa aveva resa serena la morte di Thomas, lei lo aveva visto in quel sorriso, la certezza che non l’avrebbero trovata mai più. “Non lo faranno!” si ripeteva e con le lacrime calde che le sembravano sgorgare “Per Thomas, non mi farò bruciare al rogo… da nessuno!”.
I giorni passavano lenti e fin a quel momento Phidelia aveva rispettato i voleri del suo amato, nessuno l’aveva raggiunta nonostante avessero provato ad inseguirla. Le sue condizioni però erano pessime, non era riuscita a mangiare quei panetti di segale che lui le aveva messo nella sacca e nemmeno a prender sonno. Si sentiva un vuoto dentro e riviveva ogni volta che chiudeva gli occhi il momento in cui la vita aveva abbandonato gli occhi di Thomas, il cambiamento vivido di quelle pupille scure che si spegnevano assumendo man mano un colorito vitreo come se la morte vi avesse messo sopra uno strato di orrenda membrana che va dal bianco al colore del ghiaccio. Inorridiva ogni volta che ci ripensava. In sogno aveva visto come avevano trattato al villaggio il corpo di Thomas… legato in piazza e poi bruciato.
«Non se lo meritava… vorrei tornare e ucciderli tutti» ripeteva nei suoi pensieri. Era riuscita da quell’orrenda visione del suo Thomas fra le fiamme ad avvertirne il tremendo puzzo di carne che bruciava… non un arrosto ma carne umana.
I suoi poteri le avevano sempre fatto vedere la morte, ed anche la vita ma chissà perché le rimaneva impressa nella mente solo la morte. Quante persone a lei care aveva visto morire.
Durante il suo viaggio scivolò in uno stato di odio e disperazione tale da fissare un precipizio e pensare di buttarsi… quanto male può fare volare giù nel vuoto a braccia spalancate? Alla povera Phidelia sembrava che di certo non poteva far male come tutto ciò che aveva vissuto, i suoi occhi svuotati dalle lacrime lo ammettevano sinceri, eppure qualcosa la spingeva ad esitare.
Prese un sospiro e si lanciò.
Spalancò le braccia.
Il vento le accarezzò il viso mentre i capelli sventolavano verso l’alto, sul suo viso c’era un sorriso sollevato e le lacrime di gioia le accarezzarono gli occhi.
Per qualche attimo tutto le parve scorrere veloce.
All’improvviso una luce la accecò.
Due grandi ali candide come la neve si ergevano attorno la figura di un uomo dai bellissimi capelli scuri e lunghi. I suoi occhi erano profondi eppure chi li guardava non sarebbe riuscito a scorgerne il giusto colore. Indossava un’armatura dorata con un rosso mantello brillante e nel cinturone si poteva ammirare una splendente spada dall’impugnatura intarsiata di gemme.
«C-chi sei?» balbettò Phidelia.
«Sono colui che viene a spiegarti ciò che tu sei!» rispose, e la sua voce era calma e suadente come poche altre cose al mondo «Ti sei difesa ed hai ucciso, ma ti sei mai chiesta perché non sei tornata al villaggio a vendicarti?».
La giovane scosse la testa.
«Da quelli come te, Phidelia, nascono gli angeli. Strega solo perché i poteri che Dio ti donò sono forti e incontrollabili»
«Ma io vedo più il male che il bene?»
«Cosa credi che siano gli angeli?» chiese con un sorriso e senza darle il tempo di rispondere «Gli angeli non sono altro che uomini che hanno amato, sono stati amati, hanno vissuto e sofferto. E dal dolore e le difficoltà hanno imparato la pietà; dalla tristezza e la paura appresero la comprensione e dalla morte appresero come usare con giustizia e generosità il loro potere». Le porse la mano e dolcemente le domandò: «Phidelia, sei pronta a divenire un angelo?»
La fanciulla fissò quel viso così perfetto e poi la mano che questo le porgeva. Una strada serenità le pervase l’anima e d’impeto aggrappò quella mano.
Si sollevarono verso il cielo.
Lanciando uno sguardo verso il basso Phidelia osservò per l’ultima volta il suo corpo. La testa rotta ed i capelli bagnati di sangue, la sua posa tranquilla quasi dormisse. Fu percossa da un attimo di euforia nel vedere, per una volta, la morte su sé stessa.
Quel guerriero angelico la portò verso il cielo che sembrava accoglierla con porte soffici e bianche in un azzurro tenue mentre il vento sembrava essersi fermato per non disturbare quella scena tranquilla.
Per l’ultima volta sulla terra Phidelia sorrise, felice che un angelo la stesse elevando al cielo.