In my blog

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lunedì 24 agosto 2015

Piacere per il sangue.



Sospesa a metà fra il prendere coraggio e sopravvivere, stavo cadendo nel baratro della morte. Incolpavo Dio di salvarmi sempre, ogni volta che ero quasi riuscita a uccidermi... ecco che tornava la vita.
Miranda Colerz è il mio nome e sono sfuggita ben otto volte al suicidio. C'ero così vicina quando, dopo essermi tagliata le vene, il mio sangue aveva invaso e riempito la vasca... un bagno rillassante che stava per portarmi la serenità eterna. 
Invece sono ancora qui.
Vorrei narrarvi di quanto trovavo piacevole vedere scie di sangue sul mio corpo, come se quel rosso guizzasse sulla mia pelle pallida, probabilmente vi sembrerò una pazza masochista ma chi non ha mai provato una curiosità per il sangue? Pensate,c'é stato un momento in cui volevo essere un vampiro ma poi... un morso e bere del sangue? No, ora vorrei essere una di quelle bestie che dilania la sua preda a morsi e graffi ma sono solo una pazza suicida che non riesce nel suo scopo. 
Dopo la dimissione dall'ospedale sarei stata ospite di mio fratello e sua moglie per un po' di tempo. Ero grata per le loro gentilezze, non fraintendetemi, eppure qualcosa stava implodendo in me. Continuavo a vedermi appesa al lampadario della cucina con una corda che opprimeva il collo, questo pensiero tormentava e consolava le mie notti, i miei giorni e i miei sensi. 
Volevo essere solo questo: un corpo morto che penzolava dal lampadario. 
Per questo motivo invece di migliorare, peggioravo. 
Cominciai a non mangiare più, a stare chiusa in quella stanza con le persiane chiuse, priva di luce che illuminasse la mia penosa esistenza. Cominciavo a odiare i tentativi dei miei familiari... "Prova a mangiare! Prova a uscire! Te la senti di cenare con noi? Te la senti di andare dal medico?" Ripetevano in quei giorni. Mi avevano nascosto tutti gli oggetti taglienti, ogni cosa che potessi usare per uccidermi. 
E così mi stavano uccidendo senza però lasciarmi morire in pace.
Cosa succede a un'anima in pena quando non ha più niente per quei vivere? Sì, proprio quello: la morte.
Una notte non riuscì più a contenere quella voglia di morte, scesi in cucina... i coltelli e gli utenzili erano tutti nel cassetto chiuso a chiave, in giro non c'era nulla che potessi usare. Cominciai così ad agirarmi nervosamente per la casa, al piano di sotto, al piano di sopra. Mi fermai sulle scale e dopo tornai in cucina. Salì di nuovo le scale. Le mani mi tremavano, il mio corpo fremeva sfiorando quella ringhiera. 
Guardai in basso. 
No, da quell'altezza non sarei mai morta, ci avevo già provato da un'altezza migliore. 
La rabbia mi guidò a camminare nervosamente per il corridoio. Stavo impazzendo... forse ero già impazzita! 
La porta scricchiolò e fissai, presa alla sprovvista, quell'angioletto di mia nipote. 
«Zia, stai di nuovo male?» mi chiese, e con un sorriso così dolce da rubarmi un sorriso. «Se vuoi dormi con me e ti consolo io.»
Avrei dovuto sentirmi meglio, lo so, eppure mi sentì invadere di rabbia. 
Guardaì quella bimba poco più che decenne e l'ira prese il sopravvento! 
Le aggrappai quei capelli biondi e lisci, presi a sbattere quella testa contro il muro fissando il sangue sporcarle il visino. Fu una goduria vedere quel liquido caldo imporporare il suo viso angelico. 
Non aveva nemmeno avuto il tempo di gridare, piangere, o tanto meno reagire. 
Quando il suo viso divenne una poltiglia irriconoscibile di sangue e ferite aperte, la lasciai andare e godei della morte sul suo volto, non appena toccò terra con un tonfo. Fu allora che capì che il sangue era ancora più bello sui corpi altrui, decisi di riprovare subito e mi addentrai nella camera di mio fratello. 
La luce accesa in corridoio, filtrava dalla porta che avevo lasciato socchiusa.
Dormivano così profondamente: mia cognata sorrideva nel sonno come io non sorridevo da anni. Fissai il lume di ferrobattutto che, molti anni prima, io stessa gli avevo regalato. 
Leggero, maneggevole e appuntito. 
Lo aggrappai strappando la spina dall'interruttore e andai vicino al letto. 
Non so come, trovai lo spazio e il coraggio di salire sul letto.
Strinsi il lume con etrambe le mani tenendone la punta all'ingiù e, con tutta la forza che avevo in corpo, la piantai nel torace di mio fratello.
Aveva urlato, svegliando anche sua moglie.
Entrambi stavano urlando. Entrambi mi avevano guardata come se avessero appena visto un mostro.
Piazzai un altro colpo in pancia a mia cognata, e poi di nuovo in quella di lui. Si era mosso per reagire, ma facendolo aveva favorito il mio attacco. 
Nonostante la semioscurità distinguevo la macchia di sangue ingigantirsi su quel lenzuolo chiaro. Una macchia che mi sembrava brillare! M'invase un senso di goduria infinito che poi si tramutò in una specie di assurdo orgasmo vedendo i rivoli di sangue che schizzavano fuori dalla bocca di mio fratello. 
Colpì ancora più forte.
Un altro colpo, e ancora uno, finché i loro corpi non fossero stati pieni di buchi, da cui il sangue sgorgava rosso. Un rosso immemore, capace di colorare per sempre quel ricordo insano e truce. Il mio ricordo insano e truce!
Questa è la storia di come io, una pazza suicida, sono diventata una pazza serial killer che gode alla vista del sangue. Ve la racconto come fossi una madre fiera, che narra dell'esperienza magnifica della nascita di suo figlio.
A voi lascio lo spazio di immaginare, inorridire, fantasticare o vomitare.

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