In my blog

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mercoledì 18 ottobre 2017

Lacrima



Ne scenderà una, ogni volta, che il dolore invaderà le tue membra. Sarà più amara e pesante quando è la tua psiche a soffrire.
Scivolerà quasi ogni volta in cui chi ami ti ha ferito.
A volte, sarà per la gioia; alcune per rabbia.
Qualcuna andrà avanti lungo la gote, arriverà a percorrerti il viso sino al mento, da lì cadrà, e si perderà.
Ci saranno volte in cui non sarà sola, altre scivoleranno insieme a lei.
E quelle volte in cui stai piangendo, pensa. La tua lacrima sta urlando quello che a volte neghi a te stesso: il tuo stato d'animo.

giovedì 6 aprile 2017

L'oscurità

C'era un vecchio, magro e gobbo, che guardava sempre giù dalla collina. Dicevano che era un uomo saggio in grado di dare buoni consigli.
Un ragazzo un giorno lo avvicinò. Reduce da una tragedia nella sua vita, voleva tanto l'aiuto di qualcuno. Cercava un angelo terreno capace di tendergli la mano.
«Perché secondo lei esiste la morte?» chiese il giovane appoggiandosi alla ringhiera di legno.
Il vecchio si volse a guardarlo. «Perché senza, sarebbe la vita a perdere significato» rispose.
«E qual'é il senso della vita?»
«Vivere».
Il giovane lo fissò sorpreso. Sperava che quel vecchio gli avrebbe trasmesso un solo,  stupido, motivo per cui amare la vita. «Come si può vivere e basta?» domandò.
Il vecchio sorrise. «Nasciamo da un turbine buio e continuiamo a lasciarci avvolgere dall'oscurità», disse guardando oltre quella collina, «il buio è tristezza, solitudine, odio, dolore e, sopratutto, morte. Non pensi anche tu?»
«E perché allora dovrei voler vivere?» domandò.
Il sorriso del vecchio aveva un che di consolante. «Perché vivere vuol dire rinunciare a quel buio e aggrapparsi a cose belle, figliolo».
Il sorriso del vecchio mentre gli parlava si era impresso nella mente del ragazzo che comunque, una volta lontano, non aveva di certo creduto a quelle fandonie. Per lui non poteva esserci idiozia peggiore, visto che era sopravvissuto a un incidente dove aveva perso i suoi due fratelli minori.

Passarono gli anni. Quel vecchio aveva continuato sempre a guardare giù dalla collina, anche quando aveva perso il proprio figlio a causa del cancro. Tutti ammiravano il modo in cui il vecchio continuava ad amare la vita e a dispensare consigli con un sorriso, forse un po' più malinconico, ma sempre presente sulle sue labbra. Quando il vecchio morì i suoi cari precisarono che si era portato quello stesso sorriso dentro la bara di legno che avrebbe per sempre conservato l'ultima parte di lui.

Il sentiero che arrivava alla curva più alta della collina era sempre lo stesso.
La vista giù era cambiata. Ora non c'era più aperta campagna, da quel lato della collina, ma una bella zona cittadina dove spiccava il grande centro commerciale, aperto proprio nell'ultimo anno. Gli anni avevano reso quella vista un po' più moderna, eppure la natura continuava a spiccare vivace.

Da tempo non c'era più quel vecchio eppure, proprio quella sera un altro vecchietto si era posizionato in quella curva fra erba e margherite.
Guardava l'orizzonte con un sorriso.
«Nonno, guardi il centro commerciale?» aveva urlato un bambino accorrendo a quella vista strepitosa.
Era come se il tramonto si stagliasse sopra quella grande costruzione, riflettendo i suoi colori allinterno delle grandi vetrate.
«Guardo quanto è straordinaria la vita» rispose, e notando lo sguardo interrogativo del nipote «una volta quando ero giovane ho chiesto a un vecchietto, che stava sempre qui, il senso della vita. Non ho creduto alla sua risposta eppure, in cuor mio, invece di arrendermi alle difficoltà ho sempre ripensato a quello che mi disse, mi ha dato forza. Grazie a questo ho continuato a vivere, ho incontrato tua nonna, ho avuto tua mamma e ora, ho anche te. La vita mi ha donato tanto!»
«E cosa ti aveva risposto quel signore?» domandò il piccolo.
«Che l'oscurità serve a rendere più luminosa la luce. L'ho imparato dopo ma è così: dopo che hai sofferto tutto diventa speciale e vale la pena stringere i denti per andare avanti» rispose.

martedì 24 gennaio 2017

Due poliziotti e il mostro

Gli stava schiacciando l'addome.
Il respiro gli veniva a mancare. Più si agitava, più faticava a prendere aria. Per questo apriva la bocca, almeno boccheggiando gli sembrava di respirare meglio, mentre qualche rivolo di saliva gli scivolava agli angoli della bocca. Pregava che non fosse sangue!
Davanti ai suoi occhi spalancati c'era un mostro tanto nero che sembrava fatto d'ombra. I denti aguzzi e la bocca larga. Non sembrava avere occhi ma lui aveva visto con precisione che da qualche parte, in quella faccia tetra, brillavano due spaventosi occhietti scuri!
Ora era sopra di lui ma Edgar non avrebbe saputo spiegare quando era saltato fuori dal corridoio buio, sapeva solo che mentre si stava avvicinando alla porta della sua camera da letto a un certo punto quella cosa si era scagliata su di lui.
La prima vera sensazione che il giovane architetto aveva provato era stata nausea: l'alito di quel mostro era pestilenziale. La seconda fu terrore e che ci si creda o no, la terza che era semplice rassegnazione fu ben peggiore delle altre.
Si era già rassegnato a morire.
Nonostante non capiva cosa fosse quella creatura che lo aveva assalito, sapeva già che non sarebbe sopravvissuto. Forse sarebbe morto prima ancora di capire di cosa si trattava.
Non era di certo un lupo mannaro.
Non sembrava per nulla un vampiro.
Pensò ai non morti, agli spettri ma non riuscì ad associarlo a qualcosa di concreto... la verità era che non aveva letto o visto nulla di simile nemmeno nei libri o nei film più spaventosi.
"Forse perché è sopra di me..." arrivò a pensare.
Si rese conto che quello lo aveva immobilizzato con tutto il suo corpo. Ci provò a muoversi ma gli sembrò che il peso di quella cosa gravasse maggiormente sul suo addome.
Provò a guardare se a schiacciare il suo petto c'erano delle mani o delle malefiche zampe artigliate, dopotutto delle unghia affilate sembravano arricchire quella tortura.
L'aria gli mancò. Per un attimo pensò che qualunque cosa ci fosse a tenerlo fermo, gli avrebbe schiacciato l'addome fino a comprimere anche gli organi interni.
Iniziò così a piagnucolare mentre gli sembrava di sentire le sue ossa scricchiolare.
«Farò quello che vuoi! Non perforarmi gli organi!» vociava.
Sembrava che quello premesse con maggiore forza, o addirittura che iniziasse a pesare ancora di più. Pareva quasi che più suppliche sentisse, più cercava di schiacciarlo.
Accusò un dolore acuto.
Sentì un rivolo di liquido caldo scivolare giù per la guancia. Stavolta era sangue, ne era certo. Doveva davvero avergli perforato un organo, forse si era rotta la costola e il peso era arrivato sul fegato o sui polmoni.
"Sì forse i polmoni, visto che non respiro più" pensava ancora Edgar. Prese aria e pregò il mostro di liberarlo, di non ridurgli lo stomaco in pezzi.
Il mostro gli alitava in faccia. Il suo alito puzzava di carne putrida e nel buio un luccichio gl'illuminò gli occhi. Spostò apposta tutto il suo peso in avanti iniziando a ringhiare con una voce stridula.
Quella voce era persino peggio del peso, così acuta e irritante. Iniziò a pregarlo di smetterla, e arrivò persino a pregarlo di ucciderlo.
A un certo punto un "crack" avvisò che le costole avevano ceduto. Gli artigli del mostro si piantarono all'interno del torace del povero uomo. Questo aveva urlato di dolore.
Le orecchie sanguinavano. Gli sembrava che quel ringhio gli perforasse il cervello, tanto gli doleva la testa. Sentiva che l'udito veniva a mancargli come se i timpani si stessero disintegrando, forse stavano proprio per esplodere!
Si lamentò. Era certo di aver mugolato ma non aveva sentito la propria voce... era quasi certo di aver perso l'udito.
Il mostro aprì la bocca in un ringhio famelico. La sua voce era vibrata nell'aria ma le orecchie di Edgar non l'avevano potuto udire.
Terrorizzato da quell'infausto silenzio il giovane architetto immaginò che gli artigli di quella creatura l'avrebbero trafitto. Un brivido gli fece rizzare tutti i peli in corpo.
Pensò di supplicarlo, per un attimo era stato tentato di cedere al mostro la sua anima in cambio della vita. Poteva di certo vivere senza anima... al mondo ci sono tantissime persone che sembrano non averla!
Fece per parlare ma la lingua gli si fermò. Non riusciva a dire nulla terrorizzato com'era.
La creatura levò al cielo quella specie di zampa che si ritrovava e con un semplice, violento movimento, lo graffiò su spalla e petto. I suoi artigli lo trafissero strappandogli parte delle membra.
Alcuni brandelli della sua stessa carne ricaddero sul corpo, ora inerme, di Edgar. Non era ancora morto eppure il suo sangue nelle vene era ghiacciato come se lo fosse. Il terrore che quei pezzi di carne avevano acceso nella sua mente era indescrivibile perché sapeva già che tutto il suo corpo sarebbe stato ridotto in una carcassa sanguinante, lasciato per terra a imputridire.
"Mi sbranerà! Mangerà i miei organi interni!" si ripeteva. Un acuto pensiero che gli martellava la mente, era anche l'unico rumore che riusciva a udire.
I denti affilati della creatura brillarono nel buio.
Urlò. Stavolta la sua voce uscì forte e stridula. Pregava perché i vicini lo sentissero, anche se probabilmente poco avrebbero potuto fare per salvarlo da quella cosa.
Riuscì persino a trovare il coraggio di provare ad alzarsi. Provò a spingere via il mostro, ci tentò davvero, eppure era così pesante da non essersi mosso minimamente.
L'espressione di quell'essere sembrava divertita come se vedere gli assurdi tentativi del prigioniero fossero cose ridicole, tanto da rallegrarlo dall'oblio a cui apparteneva .
"Mi sbranerà" ripeteva con terrore la voce di Edgar nella sua testa. Incessante, martellante, assumeva quasi un crudele tono masochista!
Il mostro si spinse in avanti e con i suoi denti affilati morse tra la spalla e il collo. All'inizio un semplice morso, poi strinse e strinse. I denti penetrarono le carni e già con la bocca poté sentire il sapore della sua vittima, quando furono sprofondati in quelle membra tirò verso sé.
Il pezzo che strappò da quel corpo sanguinò per la stanza accompagnando il movimento circolare di quelle fauci.
Ancora il giovane architetto urlò.
Al mostro non sembrava dare nessun fastidio né quella voce stridula, né il tremolio della vittima, anzi masticava con espressione soddisfatta. Per dispetto mangiava lentamente, gustando i momenti più saporiti.
Il dolore affliggeva il giovane architetto. Un altro morso lo aveva appena privato del braccio e la debolezza gli stava dando un'idea della quantità di sangue che perdeva.
Il mostro continuò a infierire finché Edgar non perse i sensi consapevole che ormai era più morto che vivo.

Una volante della polizia si fermò davanti a quella casa dal portone scuro. I due agenti erano giovani ma promettenti, di loro si diceva che avessero un grande futuro dinnanzi alla loro strada.
Tyler Mede era alto e magro. Un volto allungato, sempre serio e posato.
Oliver Urano invece spiccava per la sua carnagione olivastra e i folti capelli mossi, ribelli e ingestibili.
Entrambi scrutarono le finestre chiuse. Sembravano barricate dall'interno.
I vicini che avevano avvisato la polizia erano radunati sul viale, alcuni in pigiama e ciabatte, altri dovevano aver trovato il tempo per vestirsi frettolosamente. Vedendo la volante fermarsi un paio di questi si avvicinarono.
«Abbiamo sentito delle urla terribili!» disse ansiosa una donna di mezz'età. Era avvolta da una vestaglia di flanella color fragola e sembrava spaventata.
«Non si preoccupi, diamo un'occhiata noi» fu gentile Tyler.
Oliver si era già diretto alla porta.
Tutti i presenti lo guardavano seri.
«Quante persone abitano in casa?» domandò Tyler.
L'anziana si voltò a guardarlo. L'espressione seria. Sembrava proprio non osare rispondere. Guardò uno dei vicini rispondere per lei.
«Solo un giovane» aveva risposto quell'uomo robusto sui cinquanta.
Le finestre e la porta erano chiuse, sprangate. Non c'erano luci accese e non si udiva nessun rumore.
«Polizia, aprite la porta!». La voce dell'agente Tyler Mede rimbombò come il tonfo di un sassolino lanciato in un burrone.
Nessuna risposta.
Ora il poliziotto bussò con convinzione. Urlò ancora il cognome dell'uomo che aveva letto sulla buca della posta. Bussò ancora.
Allerta, in cerca di ogni possibile segnale, Oliver cominciò a perlustrare le finestre spostandosi anche al lato della casa. Gli saltò subito all'occhio quel vetro insanguinato.
«C'è del sangue su una finestra» disse tornando dal collega. Lo disse sottovoce, non voleva far preoccupare la gente del posto.
«Sfondiamo la porta!» vociò in risposta Tyler.
La minaccia non continuò poiché, per i due, un avviso fu più che sufficiente.
Iniziarono con le spallate. Uno a destra e l'altro a sinistra. A chi li guardava sembravano sincronizzati, e forse lo erano davvero!
I cardini della porta si allentarono e la superficie sembrò iniziare a pendere su un lato. Fu allora che bastò un semplice calcio ben assestato da Oliver e questa piombò per terra permettendo ai due agenti di vedere l'interno della casa.
C'era buio all'interno. Tutto taceva.
Tyler avanzò di qualche passo all'interno della casa. La pistola stretta in mano, in guardia, pronto a difendersi.
Come al solito Oliver restava indietro. Era lui quello che gli guardava le spalle e che monitorava ogni operazione, anche la più piccola!
«Quale finestra?» chiese frettoloso Tyler.
Certi agenti lo ritenevano un tipo brusco e maleducato ma Oliver sapeva come era solito comportarsi fuori dal lavoro e capiva che durante le operazioni di qualunque tipo, tendeva a essere concentrato solo su quello che era il loro dovere. Non esitò. «Dovrebbe essere la terza stanza sulla destra» rispose.
«Polizia, stiamo entrando» urlò quello avanzando verso la stanza giusta.
La vista si era già abituata a quel buio.
Contarono silenziosamente le porte, le stanze e forse anche i secondi che passavano in silenzio.
Le loro pistole erano pronte a sparare se ve ne fosse stato bisogno.
Anche da fuori non si udiva alcun rumore. I vicini dovevano per forza essere zitti in attesa dei due agenti.
Una scia di sangue si illuminò quando Tayler accese la luce del corridoio. Un corpo insanguinato doveva essere stato trascinato disumanamente.
«Un pazzo...» disse a bassa voce Oliver.
Tayler non rispose ma aveva appena pensato la stessa cosa.
Entrarono nella stanza, brandendo in aria le armi.
«Mani in alto!» aveva urlato Tayler.
Sorpresa delle sorprese... un corpo giaceva riverso sul pavimento.
Il braccio allungato verso la finestra. Forse aveva provato ad aprirla ma l'unica cosa che era riuscito a fare era stato lasciare una traccia di sangue sulla finestra poi Edgar era caduto per terra, vittima della sua paura.

I medici legali erano stati chiari: quelle tracce di sangue che Oliver e Tayler avevano visto non esistevano, non ve n'era proprio traccia, e il giovane architetto si era accasciato a terra stremato da un infarto.
I vicini giurarono e spergiurarono che Edgar aveva urlato a più non posso, in preda al terrore; e i due agenti avevano visto la paura nei suoi occhi sbarrati.
Quello che nessuno sapeva è che quella notte a Edgar era apparso un mostro che tutti noi conosciamo ma che non abbiamo mai visto attaccare qualcuno così accanitamente: la paura!

domenica 1 gennaio 2017

L'acrobata



Camminava come se volasse.
Si stagliava legiadra contro il cielo.
Se avesse voluto, chissà, avrebbe potuto afferrare le stelle eppure preferiva guardare in basso.
Non era la fama o il bisogno di glorie che la faceva essere così grande e irraggiungibile ma il suo amore per i sogni.
Lei, l'acrobata, che camminava su una fune, sotto un telone variopinto e in basso vedeva gli sguardi sognanti dei bambini. Il suo scopo di vita era regalare un sogno a ogni sua esibizione.
Per questo era grande fra i grandi, era un'artista vera la cui unica ambizione era rendere felici coloro che la guardavano, sopratutto se bambini.
Non mirava al cielo, anche se spesso quando invece che sotto a un tendone, si esibiva sotto le stelle avrebbe potuto saltare e far suo il cielo.

domenica 11 dicembre 2016

Desideri

Quando ero un bambino desideravo tanto volare ma mi dicevano che era impossibile e avrei dovuto capire.
Quando ero un adolescente avrei soltanto voluto capire il mondo ma mi dicevano che dovevo crescere e trovare la mia strada.
Quando fui adulto volevo  viaggiare ma mi dicevano che avrei dovuto pensare alla famiglia.
Ora sono vecchio e vorrei soltanto vivere ma tutti continuano a dirmi di essere felice nonostante ho realizzato pochi dei miei sogni.
Pochi dei miei sogni però non direi... perché sì, continuo ancora oggi a non capire il mondo e "soprattutto" le persone, ho trovato la strada che volevo percorrere e ho viaggiato per quella via di gioie e difficoltà assieme alla famiglia che mi sono creato. Ho vissuto e presto realizzerò il primo dei miei sogni, ora ancora più forte.
Non era così che immaginavo di volare via da bambino ma ora che sono vecchio aspetto con ansia la realizzazione del primo e ultimo sogno.

mercoledì 2 novembre 2016

Vortici d'orrore e fantasia di Giuseppina Vanessa Sata


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La fantasia e l'orrore dominano da sempre il potere delle parole.
Spaventose creature e guerrieri dalle grandi doti. Creature mitologiche e paure talvolta troppo reali. Vita, morte, rancori e ricordi.
Dieci racconti che racchiudono la forza delle parole necessaria per poterli narrare ai lettori che vogliano lanciarsi in questi: "Vortici d'orrore e fantasia".

giovedì 20 ottobre 2016

Il mare



Il cielo era incredibilmente limpido quel giorno, si rispecchiava nel mare confondendosi in un tutt'uno.  Le onde quasi impercettibili disegnavano piccoli segni sfumati in quel magnifico azzurro.
Sulla sfonda fra giunchi e Oleandri, all'ombra di un prosperoso ulivo dalle foglie colorite, c'era una ragazza che osservava il mare.
La pelle dorata dal sole, i capelli svolazzavano leggeri e il suo viso cercava qualcosa che sembrava non arrivare da giorni.
Il mare sembrava assorbire tutti i suoi pensieri e nulla riusciva a distogliere la sua attenzione.
Quando era solo una ragazzina il mare le aveva portato via il padre. Quella maledetta battuta di caccia che era finita per diventare rottami di legno in mezzo al mare in tempesta, un intero equipaggio inghiottito fra le onde!
A quell'epoca però lei era troppo piccola per stare lì ad aspettare... ora che era una madre, lasciava i suoi figli a letto e aspettava suo marito.
Sì, rano molto giovani ed erano ancora pieni di sogni, speranze e progetti eppure sembrava quasi che il destino infausto gli stesse giocando un brutto scherzo.
Il solo pensiero che il mare potesse prendersi tutto era un turbinio di malesseri nel suo cuore. Già una volta aveva svuotato la sua vita portandole via il padre, non poteva portarle via anche il padre dei suoi figli.
Combattivo e gorgogliante il mare s'infrangeva sulle onde. Pericolosa distesa di bei ricordi e di tristi amarezze. La schiuma si gettava in aria.
Degli schizzi d'acqua la fecero trasalire.
Sfiorarono il suo viso e bagnarono le sue lacrime già abbastanza salate. Il suo pianto si raddoppiò.
Non voleva che i suoi figli dicessero addio al proprio padre.
Non poteva permetterlo!
Piano piano i giorni stavano spazzando via le sue speranze. Ogni volta che poteva andava sempre ad aspettare in riva a quella distesa blu... aspettare cosa? A volte sperava di veder tornare la barchetta di suo marito, altre desiderava almeno che ne arrivassero i detriti.
Un segno che è vivo o che è morto" pregava. Allora immaginava i suoi occhi sbarratri e vitrei, e il suo corpo freddo e immobile.
Rabbrividiva sempre a quel pensiero!
Il tramonto quella sera brillava malinconico ai suoi occhi.
Lei lo guardava con i suoi occhi languidi e il cuore le batteva come se sentisse il cambiamento che incombeva nella sua vita.
All'improvviso qualcosa apparve all'orizzonte.
Una carcassa malconcia galleggiava malamente portata fra le onde.
Le lacrime presero a scivolare sulle sue guance. Le sue mani si erano portate a coprire il viso. Non credeva ai suoi occhi.
Il pesante legno sembrava esser stato bruciato da un attacco di fulmini guidati dalla tempesta. Stava lentamente affondando eppure avanzava verso di lei.
Suo marito era lì. Vivo e sorridente!
Il mare quella volta, che probabilmente non sarebbe nemmeno stata l'ultima, l'aveva tenuta in attesa... eppure le aveva dimostrato che tutto ciò che ci può sottrarre un pezzo di sogno, con un po' di speranza può ridarcelo.